rAn number 3, October 1992 The zine is no copyrighted for the anarchist movement, please if you use "rAn" for your publications, please send us a copy. ----------------------------------------------------------------------------- The main argument of issue number 3 is the myth and the mythology of the ideologies. The contents: a critical opinion about the hacker-mania, a preliminary approach to new ages myth, an article on the revolutionary images. ----------------------------------------------------------------------------- ======================= rAn, n.3, ottobre 1992 ======================= per la liberazione dell'intelligenza ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ I miti e le mitologie non muoiono mai, al massimo si adattano ai mutamenti della societa' che li genera. L'autopsia di questo numero di rAn e' appunto dedicata a qualcuno dei miti che ci circondano, e per orizzontarsi nella giungla delle ideologie c'e' una apposita mappa (senza tesoro). Un fumetto riporta un giudizio sullo stato attuale da un punto di vista piuttosto pessimista; accanto ad assaggi di tecnologia informatica troverete gli inossidabili miti rivoluzionari. Piu' avanti gettiamo uno sguardo al moderno e al fantascientifico, e poi ancora gocce, feticci e commenti. Intanto continuiamo a sollecitare interventi e contatti da indirizzare al nostro recapito redazionale (c/o Nabat, Casella Postale 318-57100 LIVORNO). (P.S. Il settimanale della resistenza umana ha utilizzato (dopo di noi) la stessa immagine della nostra ultima contro copertina... il villaggio e' piccolo e abbiamo il sospetto che ci abbiano copiato) RAN ***************************************************************************** In quale mitologia viviamo? ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ In quale mitologia viviamo? Lo scienziato rispondera': "in nessuna, noi siamo entrati nell'era delle conoscenze matematiche!" Il politico: "la democrazia, che altro?" Si potrebbe continuare il giochino. Il "mondano" rispondera': "miei cari, noi sopravviviamo nella mitologia della star, del corpo bionico, della realta' virtuale". Il filosofo: "tutte le nostre credenze si coagulano nel monoteismo mosaico e nell'idea di una missione rivelata". E voi, in che mitologia vivete? Una piccola certezza: l'Occidente industriale continua ad imporre lentamente la sua mitologia al resto del mondo. Certi la chiamano "Global Tech". Si afferma inizialmente con delle piccolezze: ci sono telefoni in fondo ai deserti, radioline a transistor nel cuore dell'Amazzonia, pacchetti di Marlboro a Benares. Lentamente, i nostri computer digitano TUTTO. Soprattutto, c'e' l'orizzontalita' affascinante del nostro sguardo: anche quando guarda le stelle, l'Occidentale cerca di trasformare l'universo in informazioni o in oggetti; in forme esteriori. "Global Tech" vuol mettere tutto il mondo nella orizzontalita' "materialista". Quali grandi mitologie le resistono? Anche l'Islam, o le grandi mitologie dell'estremo Oriente, sono lentamente masticate, costrette come sono ad accettare il tempo di "Global Tech": l'idea che ci avviciniamo al terzo millennio non dovrebbe avere alcun effetto su arabi o cinesi, che hanno altri calendari: eppure, essi sanno che "siamo nel 1992". La compenetrazione dei miti, forse, non ha solo inconvenienti. I giapponesi, ad esempio, sembrano aver creato una miscela mitica/hi-tech a loro misura. Il guaio e' che, in realta', non si puo' avvicinare "gentilmente" un mito, una credenza, un rituale ad una cultura diversa da quella d'origine. Ci si pasce di solito dei resti delle grandi mitologie dopo averle distrutte. Ci si meraviglia dei sogni degli aborigeni d'Australia, dopo averli praticamente estinti. Nessuno si fa affascinare dall'Islam Sciita, perche' e' ben vivo. "Global Tech" appare al di sopra delle parti; non si presenta mai come una mitologia, eppure ha i suoi miti. Prendiamo ad esempio il famoso Big Bang: da un'esplosione di punto in bianco sarebbero scaturiti, circa quindici miliardi d'anni fa, il tempo e tutte le galassie. Vale il mito dell'uovo di Brahma, o quello della lacrima dello struzzo cosmico che cadendo nel latte d'Okapi, avrebbe dato origine all'universo. Naturalmente, si obietta che il Big Bang e' matematicamente dimostrato, e che non stabilisce legami magici tra la realta' e noi. Questa e' la genesi della mitologia Hi Tech: credere che la razionalita' possa guardare il mondo dal di fuori, come un orologio, dematerializzarlo e ri-materializzarlo, e cosi' dominare l'universo. E credere fermamente in questo. Di fronte a tutto questo, ogni gruppo subalterno o che si ponga comunque in posizione "antagonista" rispetto all'ordine di cose esistente, si crea una propria mitologia, che poi e' pur sempre un sistema di miti, riti e credenze tramite il quale si cerca di acquisire e mantenere una propria identita' "altra". Il guaio di questi sistemi mitologici, e' che in quanto tali presuppongono comunque un'accettazione supina di un sistema di idee che rimane, alla base, intoccabile: in pratica una serie di "dogmi". Prendiamo gli anarchici, cioe' noi. Figli della cultura occidentale, prevalentemente cristiana se non cattolica, abbiamo dato vita ad una serie di personaggi mitologici che, in quanto tali, sono difficilmente soggetti a critica. Sono i nostri eroi divinizzati, i nostri santi. Secondo un percorso tipicamente cristiano, l'agiografia anarchica riempie un pantheon di martiri della fede: personaggi discutibili come Camillo Berneri (che se non fosse morto ammazzato dai Comunisti, che sono una delle rappresentazioni canoniche del Male, sarebbe osteggiato da molti, se non altro per una concezione della donna degna di S. Ignazio di Loyola), sono incensati in convegni ed articoli che non escono dal celebrativo. Determinati fatti storici, e i personaggi che vi sono legati, fanno parte del dogma, e come tali sono rispettati spesso acriticamente: Makhno che viene esaltato da compagni "anti-organizzatori", che d'altra parte osannano anche la CNT (quella del '36, sia chiaro). Tutti i simboli di un'ipotetica "eta' dell'oro" dell'anarchismo, gravidi di gloria e di martirio, godono di quasi unanime ed acritico rispetto, da parte di tutti i settori del movimento. E' chiaro che, per quanto riguarda gli anarchici, il pudore e la paura di incappare in "culti della personalita'" intralciano parecchio lo sviluppo di una fede cieca in questi miti; la parte del leone, nella nostra mitologia, la fanno altre cose: l'autogestione, la barricata, il mito "maudit" del coraggio di quello che non fa la spia nemmeno se lo scannano, la morte per la liberta'. Ma piu' di tutti questi rimane ad impastoiare gli anarchici (almeno gran parte di quelli che scrivono) il mito antico e quasi indistruttibile del lavoro. Punizione biblica (assieme al parto) per il peccato originale, si e' incrostato di valori morali che ne hanno fatto, nell'epoca della borghesia, il simbolo stesso di ogni virtu' per tutti, dai preti... agli anarchici. La stessa Utopia anarchica e' stata quasi sempre dipinta come "un mondo di lavoro"; fricchettoni e/o piccolo-borghesi tutti coloro che, soprattutto negli ultimi decenni, hanno tentato di immaginare un mondo che nascesse invece dal rifiuto di questi valori mitici: che nascesse dal piacere, dalla non-produttivita', dall'ozio. Ricordo una battuta di Snoopy: "Come sarebbe il mondo se tutti non facessero che mangiare e dormire? Sarebbero tutti grassi e ben riposati!". Indipendentemente dalle loro radici inevitabilmente cristiane (sarebbe ipocrita negare queste origini a tutto il movimento socialista e agli anarchici), i miti non svolgono necessariamente una funzione "negativa"; tanto per cominciare, costituiscono l'identita' necessaria ad esistere. Quando poi la mitologia del movimento riesce ad identificarsi quanto piu' possibile con quella delle cosiddette "masse popolari", diventa l'aggancio che permette al movimento stesso di estendersi ed avere dei risultati. Il mito del libero pensiero, ad esempio, si trovo' a rispondere alle aspirazioni del popolo spagnolo di liberarsi dal giogo clericale, portando non poca acqua al mulino degli anarchici. Per non parlare poi della vernice mitologica di irriducibilita' che avvolge gli anarchici, e che in momenti di fermento sociale fa salire le loro quotazioni nell'immaginario popolare (basti pensare alle origini popolarissime e al successo di certi canti, come la ballata di Sante Caserio, Battan l'Otto, o Sacco e Vanzetti). Il mito dunque, se da una parte imbriglia le possibilita' di critica e nasconde le magagne, dall'altra svolge due funzioni fondamentali: fornisce il coagulo dell'identita' della "tribu'" (garantendone a volte la stessa sopravvivenza), e costituisce il canale comunicativo piu' immediato verso l'esterno, creando spesso il collegamento necessario tra il "piccolo" del movimento ed il "grande" della classe. Il segreto dovrebbe essere questo: senza cedere all'insulso giochino dell'iconoclastia a tutti i costi, essere liberi di essere eretici. Panurge ************************************************************************** Miti moderni ^^^^^^^^^^^^^ Ogni epoca ha i suoi miti, i suoi eroi, i suoi personaggi leggendari. Semidei e cavalieri senza macchia, esploratori e scienziati, gangster e generali, dittatori e rivoluzionari. Tutte persone accomunate dalla capacita' di portare a termine imprese tanto memorabili quanto impossibili ai "comuni mortali". Spesso questi miti nascono in sordina: all'inizio, le imprese di un cavaliere sono note solo a pochi eletti sparsi in un piccolo territorio, poi -di solito attraverso un libro, un dipinto, un cantastorie- questi avvenimenti vengono a conoscenza di un numero maggiore di persone, tramandati nel tempo ed i protagonisti entrano a far parte del cosiddetto immaginario collettivo. Comune alla gran parte della popolazione oppure solo a piu' o meno grandi settori di essa. Il passaggio dal singolo episodio alla narrazione dello stesso fa si che molti degli avvenimenti vengano trasformati, volontariamente o meno: l'uccisione di un grosso animale selvaggio si trasforma nell'epica lotta contro un drago fiammeggiante. La trasmissione dell'avvenimento, la sua comunicazione, produce una distorsione dei fatti originali a vari livelli: possono essere omessi dei particolari, la sua collocazione nel tempo puo' essere modificata, possono esservi aggiunti episodi "inediti" e cosi' via. Per tali ragioni, in seguito e' molto difficile risalire da una leggenda alla sua rispettiva "verita'" storica. Miti tecnologici e disinformazione Lo sviluppo delle Tecnologie Informatiche ha avuto una serie di ricadute pratiche che hanno mutato profondamente il nostro modo di vivere: dal supermercato al parrucchiere e' tutto un proliferare di computer, banche dati e cosi' via. E, sebbene la comunicazione di massa sia alquanto diversa -almeno dal punto di vista tecnologico- da quella dei secoli passati, assistiamo sempre alla stessa trasformazione di un episodio nella sua rispettiva leggenda: continuano a nascere nuovi eroi e si sviluppano nuove mitologie. Tra i miti emergenti di quest'ultimo decennio possiamo annoverare certamente quello dell'hacker, una figura strettamente collegata agli elaboratori elettronici. Un diffuso dizionario riporta questa definizione dell'hacker: "person whose hobby is programming or using computers" (Oxford Advanced Learner's Dictionary, Oxford University Press, 1989), mentre in uno piu' vecchio non compare come sostantivo (Hazon, Grande Dizionario, Garzanti, Milano 1968), ma solo come verbo (il verbo to hack, che ha vari significati: tagliuzzare, danneggiare, interrompere); recentemente la definizione e' stata modificata in: "person who use the information in a company's computer system without permission" (Oxford Learner's Dictionary, Oxford University Press, 1991). Nei media invece questo termine e' ancora confuso e/o assimilato al "pirata" informatico, vale a dire a quello che passerebbe tutto il suo tempo a copiare i programmi per computer per fare un dispetto alle case produttrici di software o, al ben piu' temibile seminatore di virus sfascia-computer che tanto allarme hanno provocato soprattutto in questi ultimi due-tre anni. Una sia pur sommaria scorsa ad alcuni titoli conferma la nostra tesi sulla disinformazione che i media fanno sull'argomento. Prevale la confusione totale: nell'articolo "Rinviato a giudizio 'pirata' dell'informatico" (l'Unita', 29/11/90) si parla di un creatore di virus; "I 'pirati' del Videotel" (la Repubblica, 13/7/91) riguarda le truffe telematiche e "Usa, presi i 'pirati dei chip'" (il Giornale, 10/7/92) si riferisce a casi di intrusione in un banche dati. Ci sono poi le "notizie" fotocopia dei media senza fantasia: "Software, pirati nel sacco" (L'Espresso, 30/6/91) e "In trappola i pirati del software" (L'Espresso, 13/10/91). Quelle prodotte dal terrorismo di stato: "Telematico in tilt. C'e' un pirata?" (la Repubblica, 21/1/92), "Pirati del computer in azione tra i segreti della Giustizia" (la Repubblica, 24/3/92), in entrambi i casi si cerca di scaricare su qualcuno le inefficienze del servizio telematico della Borsa e del Ministero della Giustizia. Le "notizie" destinate a delle specifiche fasce di utenza, economica: "Una polizza contro i pirati del chip" (il Sole, 12/11/90); popolare: "Poliziotti dell'informatica contro pirati del computer" (il Tirreno, 13/7/91); professionale: "Primi in pirateria" (Computer, 18-19/9/91), "Tempi duri per i pirati" (Notiziario ASCOM, Febbraio 1991), quest'ultimo titolo particolarmente abusato: "Tempi duri per i pirati" (Linea EDP, 17/12/90). E infine quelle relative ad una specifica campagna di stampa: "Pirati attenti, arriva la legge" (il Manifesto, 15/11/90), "La CEE contro i pirati" (Computer, 23-24/1/91), "L'Europa ferma la pirateria" (Computer, 8-9/5/91), "Affondata la nave pirata" (Computer, 20-21/5/91), tutte dedicate ad una futura legge contro i "pirati". Tra gli ultimi a sfruttare in modo esplicitamente commerciale questo mito ci sono i produttori di una nota acqua gassata, in uno spot televisivo collocato prima di una trasmissione come Mai dire TV; questo e' forse uno dei primi utilizzi della figura dell'hacker per una pubblicita' fuori dalle riviste di settore, dove invece e' ovviamente gia' presente da diverso tempo. Tutto questo favorisce nel lettore la digestione di false informazioni, nel migliore dei casi confuse con quelle vere, e contribuisce ad alimentare il mito. Come nel medioevo, queste figure mitiche hanno oggi anche un loro genere letterario: il cyberpunk del quale si interessano sempre di piu', quotidianamente, tutti i media. Dove nasce l'hacker Vista la relativa giovinezza del mito e' forse possibile cercare di risalire alle sue origini, che non sono ancora cosi' lontane nel tempo. L'alone di mistero che ha circondato i computer durante i loro primi trent'anni di funzionamento ha fatto in modo che si sviluppassero tutta una serie di luoghi comuni e mitologie che hanno resistito ben oltre l'inizio dell'informatizzazione di massa (1982-1984). In partenza a causa dell'alone di segreto che circondava i primi computers e, in seguito, grazie soprattutto al cinema e alla letteratura di fantascienza che, per altro, aveva gia' da molti anni trattato gioie e dolori di una societa' informatizzata; anche se lo sviluppo tecnologico odierno fa sembrare ingenuamente ridicole le storie di computer scritte prima degli anni '70. Il mito piu' resistente -oltre che paradossale- in assoluto e' il computer che "pensa": se una macchina pensa, allora -per definizione- non e' una macchina ma qualcosa d'altro. Del resto e' proprio di questi mesi l'annuncio del fallimento del progetto giapponese per la costruzione di computer di nuova generazione. Un altro e' quello dell'infallibilita' (nel bene e nel male) delle macchine, questo ha come conseguenza che i computer sono difficili da usare per i comuni mortali. Chiunque di noi si sia trovato davanti dati errati generati da un computer sotto forma di accrediti mancati sull'estratto conto, errori nei dati personali sui certificati e via sbagliando si sara' reso conto che questo mito e' gia' tramontato. Piu' resistente invece il mito che vuole l'uso del computer difficile, grazie anche alle macchine che fino a pochi anni fa sembravano studiate apposta per essere inutilizzabili; ma negli ultimi anni quasi tutti gli elaboratori hanno iniziato ad adoperare sistemi di funzionamento piu' amichevoli che ne facilitano notevolmente l'uso anche ai meno esperti. Altra leggenda e' quella di cui ci occupiamo: l'esistenza di una particolare categoria di persone che sono capaci di fare con queste macchine cose straordinarie. Anche in questo caso il mito, alimentato dal cinema e dalla letteratura, e' stato poi ripreso e amplificato dai media senza alcuno spirito critico (e non poteva essere altrimenti), tutti ricorderanno il film "War Games", tanto per citarne uno di quelli meno fantastici, dove un giovane genio riusciva ad interagire con il solito supercomputer "pensante" superando tutte le sue difese, la catastrofe finale veniva impedita solo grazie all'intervento del "creatore" della macchina, quindi di un personaggio ancora piu' mitico. Nella realta' le cose sono alquanto diverse Periodicamente anche i giornali non specializzati danno notizia di un hacker che e' riuscito ad introdursi in qualche banca dati supersegreta e superprotetta; le riviste di settore sono ovviamente piu' generose e danno queste notizie molto tempo prima. Tra le ultime, quella relativa ad un sedicenne che avrebbe carpito i segreti dei mezzi cingolati britannici entrando nei computer della difesa inglese (Linea EDP, 4/11/91). Prima osservazione: molto spesso queste notizie sono false, come del resto e' nella tradizione dei media, tra le ultime piu' clamorose c'e' stata quella del virus che avrebbe vinto tutto da solo la guerra del golfo. Virus naturalmente manovrato da abili agenti segreti informatici, gli hacker buoni. La notizia viene riportata da tutti i media ma con qualche distinzione. Quelli che hanno giornalisti con una buona conoscenza dell'argomento relegano la notizia tra le "brevi" ("Rivelazioni in Usa: anche un 'virus' contro Saddam", il Manifesto, 12/1/92), ma gli altri la sparano in prima pagina ("Fu un virus elettronico a sconfiggere Saddam?", l'Unita', 12/1/92) o all'interno, ma ben in risalto ("Un 'microchip' riusci' a disarmare l'esercito del rais" (la Repubblica, 11/1/92). Salvo poi, qualche giorno dopo a riportare (in piccolo) la smentita di rito; divertente la storia della "notizia" fatta da il Manifesto ("Il bluff del virus", 10/3/92). Ma quando anche la notizia fosse veritiera allora scatta il meccanismo della censura, neppure i giornali per addetti ai lavori pubblicano notizie che vanno oltre la semplice segnalazione del fatto, e di solito anche questa e' alquanto vaga. Facciamo un esempio relativamente recente e poco noto (vedi anche rAn n.1): sono "(...) olandesi e di eta' inferiore ai diciotto anni, i ragazzi che sono riusciti, durante la guerra del Golfo, a penetrare nel cuore informatico dei calcolatori del Pentagono e ad accedere a informazioni sulle operazioni militari degli Stati Uniti. (...) i pirati hanno avuto accesso a informazioni 'cruciali, ma non protette' sulle truppe, cosi' come sui tipi e le quantita' di materiali inviati nel Golfo." (Linea EDP, 31/1/92) La notizia che non ci risulta sia stata ripresa dalla grande stampa sebbene sia molto piu' interessante di quella "falsa" citata in precedenza, compare su una pubblicazione non in vendita nelle edicole, ma molto letta (50 mila copie) tra i responsabili dei centri di elaborazione dati. Dalla sua lettura si ricavano pochissime informazioni, viene perpetuato l'errore di confondere "pirati" ed hackers e si puo' notare la comicita' del fatto che non si considerino segrete (in tempo di guerra!) informazioni sulle truppe e sui materiali bellici. La realta' e' molto piu' incredibile delle notizie dette-e-non-dette: entrare -senza autorizzazione- in una banca dati e' una operazione impossibile a chiunque, sia pure attrezzato con una buona conoscenza informatica e un ottimo computer. Di solito questi grandi archivi si proteggono dalle intrusioni indesiderate con una o piu' password (parola d'ordine): vale a dire che bisogna fornire alla macchina una ben precisa sequenza di lettere e numeri per poter accedere alle informazioni riservate. Senza voler presentare noiose tabelle, basta un'unica osservazione: se la parola d'ordine (di sei caratteri) e' composta utilizzando solo le lettere maiuscole (21 lettere dell'alfabeto latino piu' W, Y, K, J, Y) le combinazioni possibili sono circa 309 milioni un numero tale da rendere altamente improbabile scoprire la sequenza giusta senza un qualche piccolo "aiuto". Provandone 10 al secondo (per 24 ore al giorno) ci vorrebbero 179 giorni per provarle tutte (questi ed altri calcoli su C. Giustozzi, "La sicurezza delle password", MCmicrocumputer, n.65, luglio- agosto 1987). Se qualcuno pensa che sia possibile provare anche piu' di 10 combinazioni al secondo ha certamente ragione, c'e' solo un piccolo particolare: non e' detto che la macchina abilitata a ricevere la password abbia la stessa capacita'. Un piccolo aiuto dagli amici Ed e' tutto qui il segreto del mito che si e' creato, nessuno o quasi parla mai di questo piccolo aiuto che permette ai leggendari hackers di penetrare nelle superprotette banche-dati. L'aiuto puo' venire da molte parti, ma un fatto e' certo: senza questo aiuto nessun hacker riuscirebbe mai a violare neppure la banca dati dei puffi. Il mito si regge in gran parte sulla mancanza o sulla distorsione delle informazioni che, volontariamente o meno, i media (e gli stessi hacker) diffondono sull'argomento. All'inizio questa possibilita' era data dal fatto che, la maggioranza delle macchine, fornivano facilmente -su carta- lunghe liste di caratteri e dallo studio di questi tabulati (ritrovati di solito nell'immondizia) il neo-hacker ricavava i suoi "numeri", poi hanno introdotto le tritacarta negli uffici proprio per ovviare a questo inconveniente, ma ancora le parole d'ordine sono facilmente ricavabili studiando appena un po' la "psicologia" dei loro utilizzatori: nomi delle mogli, dei figli, date di nascita, codici postali, ecc... sono tra le password piu' utilizzate e piu' facili da scoprire, a patto ovviamente di conoscere qualcosa della persona che le usa. Pagine e pagine di manuali raccomandano di non utilizzare questo tipo di parole, ma, imperterriti, scienziati e segretarie, impiegati e generali, continuano a farlo per un motivo essenziale: e' piu' facile ricordare una parola del genere che una del tipo "xwy3&qha". Questo non vuole dire comunque che basti solo un piccolo "aiuto" per superare facilmente le protezioni del Pentagono come sembra abbiano fatto quei giovani olandesi. Ma questo e' un altro discorso. Seconda osservazione: pochi media riportano le statistiche elaborate all'interno degli addetti alla sicurezza, dalle quali si ricava che molti degli hacker sono persone interne alle organizzazioni "vittime" dell'attacco informatico. Il "computer crime" nasce con le prime applicazioni pratiche dell'informatica, le prime ad essere colpite sono le banche, fino al 1975 si contavano solo poche decine di casi nei quali il protagonista era la macchina e sui colpevoli le indagini erano chiare: la maggioranza apparteneva allo staff di lavoro (Studio della U.S. Treasury, citato in A. Benini e M. Torrealta, Simulazione e Falsificazione, Bertani, Verona 1981, pagg. 142-143). Successivamente le statistiche si sono fatte piu' frequenti e precise, ma ancora la risposta e' quella: una inchiesta in Gran Bretagna (1983) arrivava alla conclusione che solo il 6% dei crimini era stato compiuto da persone esterne; una svedese (1985) segnalava che l'81,7% dei colpevoli apparteneva all'organizzazione colpita e cosi' via (dati tratti da G. Martella e C. Cremonesi, I crimini informatici, Mondadori, Milano 1990, pagg. 33-51), anche se, correttamente si rileva l'imprecisione delle statistiche ed il loro difficile utilizzo per un lavoro scientifico. Terza, ed ultima osservazione: tutto questo non vuol dire che l'attivita' di hackeraggio sia solo appannaggio di una ristretta ilite o che sia inutile tentare di violare le banche dati. Anzi. La strutture della repressione, sia pure con una certa lentezza -in molte Questure l'archivio e' ancora su carta- si sta adeguando ai tempi, addirittura qualcuno prevede la meccanizzazione dei processi e della creazione delle leggi e nella loro applicazione giudiziaria. Davanti a queste misure, il solo luddismo (sia pure possibile) non e' sufficiente. L'obiettivo dovra' essere quello di rendere inservibili, perche' assolutamente inaffidabili gli strumenti dello stato elettronico e l'hackeraggio sociale puo' servire allo scopo. Per fare questo comunque non e' necessario, anzi potrebbe essere dannoso, alimentare il mito tecnologico del super esperto, dell'hacker, come pure da diversi settori del movimento non riformista viene ingenuamente fatto oggi. Pepsy ******************************************************************** ********** Nuove ere e trucchi antichi ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ "New age" e' un'espressione che sentiamo sempre piu' spesso. In edicola si possono vedere i lussuosi CD della collezione "new age"; nei resoconti giornalistici sull'incontro Onu di Rio de Janeiro si parlava della partecipazione al "Global Forum" (quello che e' stato definito con poca cognizione di causa il "controsummit") dei gruppi "new age", accanto alle tradizionali organizzazioni ecologiste e terzomondiste; in libreria si possono trovare due collane -della Sperling & Kupfer e di Interno Giallo- di "libri della new age". E naturalmente l'elenco non finisce qui. Un po' di tempo fa "New age" significa "nuova era". "A new age is coming" (una nuova era sta arrivando) e' uno degli slogan piu' fortunati degli anni '60 californiani: lo cantano i gruppi rock dell'epoca (tra gli altri Country Joe & the Fish, i Jefferson Airplane e gli It's a Beautiful Day), viene urlato alle manifestazioni, sta in testa ai titoli dei giornali underground. In un periodo in cui il mondo sembra rapidamente cambiare nella direzione giusta, non e' difficile percepire l'inizio di qualcosa di radicalmente nuovo. Come dice Abbie Hoffmann: "Penso che credessimo davvero che in breve tempo sarebbero scomparse le guerre, la discriminazione razziale e anche i governi e le grandi corporations e che l'americano medio avrebbe smesso di guardare la tv e si sarebbe divertito con il rock e la marijuana e che le famiglie sarebbero state sostituite dalle comuni (...) potevamo crederci perche' tutto quello che avevamo intorno stava trasformandosi e ogni giorno migliaia di giovani americani decidevano di farsi crescere i capelli e di provare una vita nuova". Ad un livello piu' esoterico, si diffonde proprio in quegli anni la credenza astrologica che nel 2146 si dovrebbe entrare nell'Eta' dell'Acquario (periodo tradizionalmente considerato "rivoluzionario"), che chiuderebbe l'epoca cristiana (Eta' dei Pesci). Finita la festa della nazione di Woodstock, negli anni '70 di nuove ere in arrivo continuano a parlare solo i lungocrinuti frequentatori dei "Rainbow Gatherings", i grandi festival autogestiti e poverissimi dove si ritrovano gli ultimi degli hippies, nomadi e comunardi. Per gli altri i tempi del grande cambiamento sono finiti da un pezzo e molti dei bravi ragazzi che da un giorno all'altro si erano fatti crescere i capelli sono tornati a casa, hanno finito l'universita' e si sono messi a lavorare seriamente (quel che banalmente si dice la trasformazione da hippies a yuppies). La musica della new age Nel 1979 la Windham Hill, una piccola casa discografica specializzata nella produzione di dischi dalle atmosfere rarefatte e tranquille, risolleva i propri scarsi introiti con una idea geniale: "this is the music of the new age" e' il leit-motiv con cui i suoi prodotti vengono pubblicizzati sulle riviste specializzate e le radio in fm. L'espressione e' ben scelta: da un lato richiama la "new wave" di gran moda in quegli anni (do you remember? Ultravox, Cure, Siouxie, ecc...) e, dall'altro, evoca suggestioni da anni '60. In breve, la Windham vede aumentare in un anno del 400% i propri fatturati e "new age" entra nel grande schedario dei generi musicali. Si definisce cosi' musica piuttosto "delicata e soffusa, suonata con strumenti acustici o elettronici" (ma non con quelli elettrici del rock) e che esprime genericamente un approccio "contemplativo" dell'artista. I critici vorrebbero che si tratti di un nuovo movimento musicale, ma principalmente l'esplosione della "new age" permette a gruppi dell'avanguardia degli anni '70 (Oregon, Tangerine Dream) e a cantautori supermorbidi (Eric Anderson, Michael Murphy) di riciclarsi e di ritrovare le perdute fortune economiche. Nella storia ci rientra di tutto: dagli ingegneri dei sintetizzatori ai suonatori di tamburello, dai seguaci di John Cage al folk bulgaro. Basta che sia roba tranquilla, rilassante e senza troppo ritmo (come si dice "suggestiva"), che non faccia venire in mente quelle strane idee di rabbia & gioia di vivere & fare l'amore & guidare tutta la notte & esplorare la coscienza & quant'altre diavolerie del rock'n'roll. Secondo un'indagine di "Musician" (novembre 1990), il 63% degli acquirenti di dischi "new age" ha tra i 35 ed i 45 anni e il 71% ha un livello di istruzione elevato e una buona posizione professionale. Con una certa eta' e con certi lavori e' bene ascoltare musica che non scuota troppo il cuore. Sin dai primi anni '80, comunque si inizia a parlare di "new age" non solo a proposito di musica, ma anche di tutta una serie di fenomeni e di attivita' che sembrano promettere un nuovo atteggiamento dell'uomo nei confronti del proprio ambiente. Dentro, c'e' tutto il calderone mistico-ecologista: dallo yoga agli amuleti magici, da Greenpeace alle filosofie orientali, dalle diete vegetariane alla meditazione trascendentale. Se le varie sette sono le prime a scoprire la nuova tendenza e rispolverano all'unisono i propri miti millenaristici (dimostrandosi poco "settarie" e assai furbe), il filosofo ufficiale della New Age e' il fisico di origine austriaca Fritjof Capra. Questi, divenuto famoso negli anni '70 per il saggio "Il tao della fisica", pubblica nel 1982 "Il punto di svolta", in cui sostiene l'idea che sta arrivando una nuova era per l'umanita', segnata dall'incontro tra Oriente ed Occidente e da una rinnovata armonia tra l'uomo e la natura. Il "punto di svolta" non ha, naturalmente, le caratteristiche della rottura rivoluzionaria: richiamandosi confusamente al taoismo e alle teorie di Sorokin sull'evoluzione della societa', l'autore lo presenta come il risultato naturale di una sorta di processo collettivo di rigenerazione della civilta' occidentale, che portera' ad una societa' meno aggressiva e piu' ecologicamente consapevole (ma non necessariamente piu' egualitaria o piu' libera). Capra vede nelle nuove teorie della fisica, che definiscono la realta' in termini non meccanicisti, il segnale dell'inizio di questa trasformazione. In questo, Capra riprende in parte il pensiero di Alan Watts che, sin dagli anni '50, aveva rilevato come la fisica contemporanea dai quanti in poi si spingesse sempre piu' verso una visione del mondo di tipo olistico, avvicinandosi in qualche modo alle dottrine orientali (ed in particolare al taoismo e al buddismo mahayana). Partendo da questa ipotesi (e senza riconoscere il proprio debito con il filosofo inglese), Capra presenta la prospettiva di un mutamento radicale del nostro modo di vivere, che gia' oggi si esprime nell'interesse per l'ecologia, nell'emancipazione femminile e nella diffusione di pratiche e di prodotti dolci. Watts, invece, s'era ben guardato dal garantire un felice futuro e, se aveva predicato qualcosa, aveva predicato il rifiuto delle leggi e del dominio, la fine del moralismo e la gioia della liberazione, sforzandosi per tutta la vita di non diventare il maestro di nessuno (mentre Capra si e' rapidamente autoeletto il rappresentante mondiale degli scienziati illuminati) e parlando e scrivendo sempre in modo molto leggero e giocondo (mentre Capra e' serioso fino all'eccesso). 60/90 ? Nelle differenze tra Watts e Capra, e' anche ben visibile quanto lo spirito della New Age sia distante da quello della hippy generation. E' pur vero che l'interesse per l'Oriente e per pratiche di vita piu' "naturali" fece parte integrante del repertorio della controcultura degli anni '60, ma non aveva certo un carattere di preminenza ed era inserito in un contesto di radicale antagonismo al potere, allo stato e al capitale e di rifiuto globale della normalita' consumista. Il "popolo" della New Age, oggi, e' costituito in larghissima parte da ex giovani degli anni '60, ormai ben sistemati, che spengono le inquietudini dei ricordi della propria gioventu' rifugiandosi in un pensiero consolatorio e millenarista. Si potrebbe, allora, ben definire la New Age come l'adattamento delle idee dei sixties legato al filone della ricerca spirituale al clima politico e culturale dell'era Reagan-Bush, al conformismo mentale che ha decretato la fine del conflitto (della Storia) e al moralismo puritano. La New Age e', prima di tutto, una faccenda rispettabile: per sentirsi partecipi di questo bel movimento basta seguire certe diete, ascoltare musica noiosa, praticare certe terapie, magari far parte di qualche setta e, naturalmente, firmare con regolarita' le petizioni del WWF. Basta con lo scontro sociale e anche con sessodroga&rocknroll! Il "mondo nuovo" viene immaginato, nel migliore dei casi, come una socialdemocrazia mistica ed ecologista, un po' come l'"Ecotopia" dell'omonimo romanzo di Ernest Callenbach (ristampato recentemente nei "libri della New Age" di Interno Giallo), con uno stato saggio (e forte) che garantisce il rispetto dell'ambiente, la fine della violenza e la giustizia sociale. In termini di antiutopia questa visione richiama sinistramente "La Legge delle Stelle", un racconto lungo dello scrittore di fantascienza Clifford Simmak, in cui si parla di una societa' dove la salute fisica ed il benessere mentale sono diventati dei veri obblighi legali, al punto che i malati, i timidi, gli insicuri e gli infelici in genere sono chiamati a rispondere delle proprie malefatte di fronte alle autorita' giudiziarie. D'altra parte, la New Age fa' del "sentirsi bene" il perno ruotante della propria ideologia. Il suo fascino e' quello eterno del pensiero magico che promette che, con le giuste formule e le giuste bacchette, si possono vedere facilmente appagati i propri desideri. Sette, maestri, gruppi, riviste, etc. sono accomunati dal fatto di fornire in gran quantita' ricettari della vita quotidiana, in cui vengono indicati il tipo di alimentazione (in genere latteo-vegetariana), i sistemi di rigenerazione fisico-spirituale (yoga, meditazione, tai chi, gestalt, etc.), gli aggeggi magici (ultimamente sono in voga i cristalli) e cosi' via. Tutte queste storie non vengono, pero', presentate come semplici pratiche salutari (o robe curiose che, al limite, sarebbe ragionevole), ma come indispensabili strumenti della salvezza personale e planetaria, necessari e sufficienti. La trappola di un futuro felice Il mito della New Age puo' essere facilmente scomposto in due parti: *c'e' una nuova era (di pace & felicita') che sta arrivando; *questo prossimo, felice futuro lo possiamo preparare cambiando i nostri atteggiamenti. Si badi bene che il punto e' "cambiare le abitudini" e non quel "cambiare la vita" che ha occupato le menti migliori delle nostre generazioni (da Rimbaud in poi, almeno). "Cambiare la vita" e', infatti, una faccenda senz'altro faticosa e forse un po' dolorosa: si tratta di rimettersi in discussione, di lasciare sicurezze, ci vogliono coraggio ed animo leggero e l'allegra voglia incosciente di mettersi a giocare con il mondo e di surfare sull'esistente. Cambiare le abitudini e' senz'altro meno traumatico e tanto meglio se gli viene attribuito un valore taumaturgico e se si puo' fare facilmente. E intorno a questo, prosperano i furbi: per diventare vegetariani senza problemi (e fermare cosi' la fame nel mondo) sono in vendita i vegeburgers, le bistecche di soia, i surgelati "biologici"; per risolvere i propri problemi di dipendenza dagli altri, dire addio alla gelosia, eliminare lo stress della carriera basta un wee k end terapeutico in qualche centro per l'armonia universale, pagato a suon di biglietti da centomila (in Italia in queste cose sono specializzati gli "arancioni" di Osho Rajnesh); e gli esempi potrebbero non finire qui. E, spogliata dai suoi orpelli, la New Age dice solo che la salute fisica e il benessere psicologico sono robe che si ottengono volendo, ma dipende sempre dall'ampiezza del proprio portafoglio. Peter P. ******************************************************************** ********** Godzilla mon amour ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ "...Questa storia non mi piace" (da "Godzilla contro i giganti") Ormai ha 38 anni -davvero una quisquiglia per un mostro preistorico- e gode di ottima salute, verde come non mai e sempre pronto all'azione diretta, come testimonia il suo ultimo film, uscito in Giappone da neppure un anno, in cui se l'e' giustamente presa con l'imperialismo yankee, il corrotto governo giapponese e i padroni di Tokyo, distruggendo tra l'altro l'impopolare palazzo del municipio della citta', costato ai contribuenti 1500 miliardi di lire. Godzilla e' da sempre cosi', non conosce tatticismi e non ha certo paura delle rovine; ma allo stesso tempo e' un gran bonaccione, difensore dell'umanita', amico leale e sfigato ragazzo-padre (col figlio Minylla a carico). Ma soprattutto Godzilla e' un compagno, un rivoluzionario che non ci ha mai tradito ed i suoi nemici sono anche i nostri: gli inumani robot che vogliono assoggettarci, i folli scienziati nucleari, i militari con i loro inutili arsenali, il cemento delle metropoli, le megaindustrie e chiunque vuole comandare, anche se extraterrestre. Godzilla e' l'anti King Kong per eccellenza. Lo scimmione holliwoodiano e' un perdente, prima catturato dall'uomo e quindi da questo eliminato per essersi ribellato alla "civilta'" capitalista; il nostro lucertolone invece salva il genere umano per simpatia, distruggendo proprio quella "civilta'" che ci minaccia e lasciando un tale casino che costringera' gli abitanti della Terra a ricostruire una societa' diversa, ripartendo da zero. Godzilla e', in questo senso, un neo-nihilista e un neo luddista, ma "porta un mondo nuovo nel suo cuore" di dinosauro radioattivo. In King Kong, i mostri preistorici e la natura selvaggia in genere sono il male, comunque qualcosa che deve essere dominato e controllato dai valori e dalle leggi di una societa' moralmente sana. Nei "film di mostri" giapponesi, sono proprio Godzilla & C. a sovvertire tale ordine, dimostrando tra l'altro che il destino dell'uomo sta proprio nella sua capacita' di convivere con la natura; ma Godzilla, anche se verde, non e' del WWF, non e' un panda, non ha bisogno d'essere protetto e non firma per i referendum: Godzilla agisce e distrugge, con forza proletaria e passione incendiaria, tutto quello che distrugge la nostra vita. Godzilla pero' non demolisce soltanto obiettivi materiali d'acciaio o calcestruzzo, ma regala sonore sberle anche ai tanti luoghi comuni di cui siamo altrettanto prigionieri, facendo intravedere inaspettate implicazioni psicologiche. Qua infatti l'eroe, l'artefice della nostra liberazione, non e' bello ni atletico: e' un rettile ciccione senza un briciolo di sex-appeal (non a caso Gojira deriva dalla fusione di "gorilla" con la parola giapponese "Kujira", cioe' balena). Non e' un macho ne un dandy: e' solo una scheggia impazzita che ci ricorda beffardo quanti danni al potere puo' provocare la fantasia, anarchica per definizione. I mostri da temere sono infatti ben altri, quelli prodotti dalla normalita' nevrotica e dall'inquietante spettacolo della politica; per questo sarebbe davvero una festa poter vedere Godzilla contro i digosauri, tangentopoli, la NATO o il Grande Fratello. Prima o poi... Jean Rabe GODZILLOGRAFIA -------------------------------- Titolo originale e anno (*) Titolo italiano Regista Gojira (1954) Godzilla Inoshiro Honda Il contrattacco di Gojira (1955) Il re dei mostri Motoyoshi Oda Kingu Kongu contro Gojira (1964) Il trionfo di King Kong (rititolato Godzilla contro i mostri) Inoshiro Honda Mosura contro Gojira (1964) Watang! Nel favoloso impero dei mostri Inoshiro Honda La grande guerra dei mostri (1964) Anno 2000, l'invasione degli astromostri Inoshiro Honda Il piu' grande combattimento sulla terra della terza generazione dei mostri (1965?) Inedito Inoshiro Honda Gojira, Ebira, Mosura... (1966) Il ritorno di Godzilla Inoshiro Honda La battaglia decisiva dei mostri: il figlio di Gojira (1967) Il figlio di Godzilla/Il ritorno di Gorgo Jun Fukuda L'apparizione dei mostri (1968) Gli eredi di King Kong Inoshiro Honda Gojira, Minya, Gabara: la nuova grande offensiva dei mostri (1969) Inedito Inoshiro Honda Gojira contro Hedora (1971) Godzilla furia di mostri Yoshimitsu Banno Ordine di attaccare la terra, Gojira contro Gaigan (1972) Godzilla contro i giganti Jun Fukuda Gojira contro Magaro (1973) Ai confini della realta' Jun Fukuda Gojira contro Mekagojira (1974) Godzilla contro i robot Jun Fukuda Il contrattacco di Mekagojira (1975) Distruggete Kong la terra e' in pericolo Inoshiro Honda Gojira (1984) Inedito Koji Hashimoto Gojira 2 (1985) Inedito Kazuki Omori Gojira contro Violante (1989) Inedito Kazuki Omori Gojira contro Re Gidorah (1991) Inedito Kazuki Omori (*) Viene indicato l'anno di uscita in Giappone, da non confondersi con quelli della distribuzione in Usa e Italia. CARTA D'IDENTITA' --------------------------------- Nome: Gojira-Gigantis-Godzilla Sesso: controverso Data di nascita: 1954 (Anno d'uscita dell'omonimo primo film) Paternita': incerta (tra i possibili padri cinematografici: M. Mori, I. Honda, E. Tsuburaya) Maternita': probabilmente un Tirannosauro femmina (a cui somiglia molto) Residenza: isola di Oshima (Mar del Giappone) Stato civile: ragazzo-padre (? vedi sesso) Figli: uno (Tadzilla, Minylla, Minia) Amici: pochi, da segnalare Akyla (un altro mostro "buono", non molto intelligente e somigliante ad un porcospino corazzato) Nemici: molti (Gidorah, King Kong, Mosura, il titano Kong, Mega-Godzilla, Violante, Gabara, Angilas, Hedora, Gaigan, Megaro, Ebira, etc.) Parenti: Rodan (mostro alato simile ad un pterodattilo, protagonista sfortunato di un omonimo film, datato 1956) Occupazione: picchiarsi e fare confusione Precedenti lavorativi: 19 film, guest star in vari telefilm ed innumerevoli tentativi di imitazione. ******************************************************************** ********** Immagini rivoluzionarie ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ Occupandosi di comunicazione, e' facile sentir ripetere che viviamo nella societa' dell'immagine, questo e' parzialmente vero, anzi, falso; semmai e' il caso di affermare che siamo nel regno della didascalia. Infatti ormai si puo' osservare come, sia nell'informazione stampata che in quella televisiva, il controllo sociale e' in definitiva garantito da un'attenta "politica della didascalia". L'immagine visiva e' sempre un terreno minato per ogni potere; anche quando e' costruita per mistificare la realta' (basti pensare a noti fotomontaggi divenuti emblematici di certi regimi dittatoriali). Le chiavi di lettura di un'immagine sono sempre molteplici e soggettive; inoltre ad un'osservazione smaliziata spesso un'immagine dice molte piu' cose di quelle che vorrebbe raccontare, specie se raffrontata ad altre dello stesso soggetto realizzate in tempi diversi e con occhi diversi. Ecco quindi per il dominio la necessita' di disinnescare tale potenziale destabilizzante "spiegandolo" oppure riducendo la stessa immagine a supporto didascalico del testo, cercando allo stesso tempo di seppellire, censurare, ogni memoria visiva di un fatto, di una persona, di una collettivita'. Gli armadi del potere sono pieni di scheletri, quindi la censura opera soprattutto sul passato mentre la raffigurazione del presente viene "interpretata" ad uso e consumo di un pubblico eternamente "immaturo" che, altrimenti, potrebbe tirare conclusioni inopportune. Nel '38, durante l'occupazione tedesca dei Sudeti, i nazisti diffusero una foto che mostrava alcune donne in lacrime mentre salutavano col braccio teso le truppe germaniche, con la didascalia che spiegava trattarsi di un pianto di felicita', dato che invece trasparivano chiaramente disperazione e paura. Oggi, questa pratica e' all'ordine del giorno e assai spesso applicata in modo altrettanto grossolano e fazioso (vedi le recenti contestazioni di piazza). Per rendersene conto si puo' fare un semplice giochetto: un vostro amico cancella tutte le didascalie che appaiono su un giornale e voi cercate col vostro buon senso di inventare quelle che ritenete piu' adatte come commento alla singola foto e poi confrontatele con quelle originali. Non meno frequente e', come gia' accennato, l'uso "didascalico" dell'immagine stessa nei confronti del testo, per dare corpo ed avvalorare tesi precostituite. E' il caso, ad esempio, della foto con l'autonomo che spara contro la polizia, immancabile in qualsiasi servizio sul movimento del '77 quale prova inconfutabile della natura terroristica dello stesso, anche se varie perizie hanno dimostrato che gli autonomi armati fotografati non potevano essere responsabili della morte dell'agente ucciso durante quegli scontri. Oggi tale sfruttamento dell'immagine, come "protesi" della parola parlata o scritta, e' evidentissimo nella cronaca televisiva riguardo la criminalita', illustrata dalle solite riprese video che rendono normale lo stato d'assedio. La stampa d'opposizione, compresa quella anarchica, raramente si sottrae a questa impostazione nell'utilizzo dell'immagine visiva, seppure con intenti opposti, ma sovente in modo ancor piu' approssimativo ed illusorio. Se si escludono i giornali di alcuni gruppi leninisti e bordighisti, privi di qualsiasi immagine diversa da un grafico statistico, che per paura d'apparire fatui rinnegano anche Majakovskij, Breton ed Eisenstein; ben di rado nell'area antagonista e' possibile imbattersi in esperimenti di comunicazione fuori dagli schemi dominanti e liberi da intenzioni educazioniste. Quasi sempre sulle pagine "contro" e' ancora la politica, cioe' l'arte del governare, a dominare nell'affannoso tentativo d'acchiappare consenso ed orientare emozioni. Ed ancora si coltiva la convinzione che la propaganda puo' essere rivoluzionaria o anarchica dimenticando che, come intuito dai dadaisti, l'arte della riclame sta proprio nel rifiuto della riclame; tanto piu' che l'anarchismo non e' la Coca Cola. Con questo tipo di mentalita' e' quindi ovvio il ruolo assegnato all'immagine visiva all'interno della comunicazione che dovrebbe essere alternativa, cioe' un ruolo totalmente subalterno, ingabbiato, decorativo se non quando semplicemente riempitivo. Sino a quando, ad esempio, continueremo a corredare la nostra avversione al militarismo con l'iconografia Vietnam-style? La guerra del Golfo non l'ha fatta Rambo, ma i computer e i mass-media. E per quanto tempo dovremo leggere articoli sulla scala mobile, conditi con foto di lotte operaie risalenti agli anni Settanta o, peggio, con altre che mostrano i lavoratori alla catena di montaggio? Possibile che non venga neppure il dubbio che sia un modo di comunicare perdente che invece di istigare alla rivolta trasmette il senso di sconfitta? Se si facesse un'inchiesta operaia su quali "figure" mettere in un bollettino sindacale con tutta probabilita' in testa alla graduatoria ci sarebbero Moana e la squadra del cuore, per i maschi, e magari "Thelma e Louise", per le donne, dimostrando cosi' -nel bene e nel male- che chi passa gran parte della propria vita in fabbrica desidera solo rompere con tale realta'. Cosi', invece di "dire di piu'", il ricorso a due diversi linguaggi finisce piuttosto per rivelare il vuoto sopra cui viene gettato il gioco stesso del comunicare. Parole e immagini sembrano mostrare -proprio nel luogo d'incontro- qualcosa che non e' ni parola ni immagine, simile ad un gioco di specchi che rinviano il riflesso del proprio deserto; anche se e' soprattutto l'arbitrio del linguaggio che in questo incrocio si mostra in tutta la sua ridicola pretesa di spiegare una realta' che non riesce piu' ad afferrare. Il linguaggio dissidente continua in tal modo a dibattersi nell'incapacita' di liberarsi, trovando piu' rassicuranti segni e codici del linguaggio della classe dominante piuttosto che giocare la carta della sperimentazione. Ed in questa paura esistenziale dell'azzardo sta tutta la solitudine rivoluzionaria. Per cui l'immagine visiva come comunicazione sovversiva ha una ragione d'essere, se questa ha una sua autonomia e la possibilita' d'interagire col reale senza essere presa per mano dalla politica scritta o parlata. Perche' qui sta il punto: l'immagine non e' una minorenne indifesa ni una mercenaria al soldo di ogni causa; e' un'arma che ha bisogno di complici non di caporali. Passando in rassegna la stampa autogestita e di movimento per considerare l'uso dell'immagine visiva che vi viene fatto, l'impressione e' desolante: appare comunque troppo omologata rispetto all'utilizzo ricorrente da parte dell'informazione ufficiale che da quella minore ma non antagonista (vedi ad esempio i bollettini parrocchiali).