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DUE GRADINI PIU' IN ALTO DEL GRADINO PIU' IN BASSO.

1. L'ALZATA DI SPALLE.
Con grosso disappunto di tutte le teorie sociali, filosofiche, religiose ecc., che mettono al loro centro il soggetto quale perno principale, sembra che di questo, parafrasando Adorno, non rimane che l'alzata di spalle del medico al capezzale del moribondo. Già la psicanalisi, la sociologia critica, poi lo strutturalismo, la linguistica e la semiotica, levano di mezzo il soggetto. L'inconscio, la complessità del sistema sociale che non lascia spazi d'azione, e poi la lingua che non è parlata dai soggetti, ma è il soggetto che viene parlato dalla lingua e nella lingua. Insomma le rivoluzioni scientifiche hanno spodestato dapprima la terra e poi il sistema solare dal centro dell'universo, poi l'uomo dal centro della terra, poi l'io dal centro dell'uomo. L'egocentrismo e le sue culture sono così disgregate e messe in crisi. La lingua è fascista, dice Roland Barthes, ma lui lascia uno spiraglio al soggetto: la letteratura. Nella comunicazione non è il parlante, né il messaggio, né il mezzo, ciò che conta, ma il ricevente: è esso che determina la comunicazione. Tu che leggi sei ancora un soggetto?
2. L'ABBASSATA DEGLI SCUDI DEL SOGGETTO STORICO.
A livello sociale quale è l'assioma che fa decretare la fine del soggetto: da una parte la complessità del sistema, dall'altra la sua immunizzazione dal conflitto sociale, nel senso che questo non potrà trasformarsi in lotta di classe, in rivoluzione. Ma qui ancora si tratta di un soggetto storicamente determinato, il proletariato, che ora con la sua integrazione sociale, la creazione di ampie fasce di aristocrazie operaie, con la politica sociale degli Stati nel capitalismo maturo, con ciò che è definita la rivoluzione strutturale del valore, (il proletariato) non potrà che produrre conflitti settoriali e residuali, non capaci di generalizzazioni. Fatto già previsto dal sistema, il quale predispone una sorte di spazi grigi nei quali possono sfogarsi i conflitti senza la possibilità di generalizzarsi, né di incidere nel sistema. Ovviamente ciò per quei conflitti che non sono già direttamente recuperati nella dinamica dei rapporti di dominio del sistema capitalista. L'assioma, cioè, parte dalla costruzione di un modello le cui categorie sono da una parte la struttura della società a capitalismo maturo e dall'altra la lotta di classe derivante dall'ideologia marxista. E tale assioma funziona sia se si rimane all'interno di questo modello sia se si ragiona a partire da eventuali contromodelli. Il modello, invece, crolla con l'introduzione degli elementi negativi, se ci si ragiona, a partire dalle categorie concettuali rivoluzionarie anarchiche. In fondo tale assioma decreta soltanto la morte del determinismo.
3. L' OSCENO DELLO SPETTACOLO.
La società dello spettacolo non ha più palcoscenico. Il potere come istanza di realtà, il politico come escatologia e teologia della realizzazione del Reale e del Soggetto, si sono imbrigliati nei contraddittori imperativi di controllo del sistema del capitalismo maturo. Autonomizzandosi sempre di più dai processi di formazione dell'integrazione, il potere si delinea come pura strategia di dominio, come tecnologia della violenza applicata in qualunque contesto: il proliferare e la saturazione del militarismo e del controllo poliziesco produce solo panico. Siamo tutti ostaggi. La dialettica dei rapporti sociali fa posto alla società come circuito, rete, contatto. La massa è in cortocircuito, assorbe tutto. La realtà è assorbita dall'iperrealtà del codice e della simulazione. I conflitti sociali sono passati sul piano dei cosiddetti problemi psichici. Il soggetto paranoico della civiltà è in un contesto paradossale che interdisce qualunque risposta. Ma proprio l'o-scenità della repressione dà la possibilità di fare il salto logico: uscire dal contesto paradossale distruggendolo.
4. IL POTERE È OMICIDA.
Il capitalismo è andato oltre non solo la politica, ma anche la nazione: non potrebbe sopravvivere in un paese solo. È l'Internazionale. Deve ramificare su tutto il pianeta l'iperrealtà del suo codice. Così il suo regime, divenuto — dopo la morte delle ideologie — il regime di democrazia reale, pianifica, con operazioni chirurgiche, l'asportazione delle resistenze su tutto il pianeta. È vero: il potere, comunque si esprime, è un omicidio. La democrazia americana, nata con l'eccidio di un intero popolo, è il modello del regime di democrazia reale del governo del villaggio globale.
5. LA TEIERA RIBOLLE.
I flussi migratori intercontinentali introducono nel circuito del sistema nuove resistenze: l'incontro di diversità etniche (forse libere dalla loro identificazione con la nazione e lo Stato) producono nuovi linguaggi e possibili nuove comunità. Anche qui può riemergere il soggetto con tutta la sua dirompente utopia.
6. IL NOVANTASETTESIMO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA.
a. Se la teleguerra è stata in gran parte simulazione di conflitto, la telemobilitazione pacifista è stata simulazione di un esplodere del sociale, sociale che è giunto in realtà alla sua definitiva implosione: non ne restano che frattaglie custodite in un sarcofago. Il videodrome ci mostra fino ai più trascurabili dettagli dell'incolore affresco dell'opinione pubblica, e nel far questo si candida con arroganza alla sostituzione del sociale: il mediascape flusso multimediale, sembra non limitarsi più ad investire e muovere l'immaginario, esso è l'immaginario. Quando qualcuno ci rimprovera di non farci capire dalla cosiddetta gente, in realtà grida allo scandalo per il nostro essere irrappresentabili, ci accusa — col dito puntato — di non essere una delle tante bende della mummia del sociale, di essere fuori dall'opinione pubblica. b. Cos'è mai questa gente, questa entità solida e immateriale, piramidale ma orizzontale, localizzabile ma diffusa? Questo sociale a cui ci si dovrebbe aprire, che sembra stringerci senza toccarci, avvolgerci senza circondarci? Noi lo sappiamo: la gente è il teleschermo, la cui continua eiaculazione di seme sterile ha rimpiazzato, nel nostro quotidiano, quello che era un tempo il parere dell'uomo della strada (la frase recepita sull'autobus, in bottega, sul posto di lavoro). Oggi non esistono vere e proprie pubbliche opinioni, ma un continuo rimbalzo, di labbro in labbro, di ciò che dice il videodrome. Il sociale, ridotto a residuo attraversato e lacerato dal mediascape, non irradia alcun tipo di senso, pare non produrre nulla. Si limita a fornire le bocche per l'ingoio della sborra multimediale. c. Il medio oriente è una metafora del nostro immaginario: il sociale è un deserto solcato da eserciti in fusione (o meglio, da correnti deterritorializzanti che si scontrano combinando in continuazione le alleanze), dove il mediascape costituisce rappresentazioni tangibili di un conflitto-altrove (rampe missilistiche di cartone, artiglieria in vetroresina, è tutto apparente all'esterno ordine di simulacri). La telemobilitazione pacifista, pianta avvizzita, meno rigogliosa della propria ombra: quanto di meglio poteva nascere dal suolo del deserto. d. Atomiche pulite, chirurgia bellica — appresa, più che da Barnard, da qualche film di Tobe Hooper — assenza della morte dal programma informativo: l'insopportabile parvenza asettica della teleguerra nasconde la vittoria delle emorragie interne e delle infezioni che disfano senza pietà la quasi-carcassa del sociale. L'inferno senza audio dello sganciamento di bombe; l'audio senza inferno del commento — che resta come vero evento — giornalistico; la guerra del videodrome è riluttante a coinvolgere tutti i 5 sensi, respinge ogni evento affinché il nostro immaginario frammentato non realizzi un coinvolgimento diretto di qualsiasi tipo. Lo spettacolo è perfetto per via del suo handicap. e. Sforzarsi di aprirsi al sociale, di farsi capire dalla gente, è un problema più falso che mai. Il problema reale è distruggere il videodrome, sabotare ogni comunicazione mediata, produrre il caos e l'entropia dell'informazione. Evitare di illudersi sul numero delle vie d'uscita è l'unico modo di trovarne una praticabile. Ultimare il disegno della gabbia d'acciaio è il primo passo per uscire dal foglio.
7. RITI DI PASSAGGIO: LA FICTION ANNI 90.
La bambagia degli anni 80 si disarticola, si dissolve. Il videodrome preme l'acceleratore sulla produzione di fiction e i nuovi generi acquisiscono sul mercato un peso sempre maggiore: i disvalori anni 90 azzannano e smembrano il costrutto etico del decennio trascorso in un sublime gioco catartico. Questa fiction, pessimista e negativa, assurge dunque alla funzione di rito di passaggio, di virtuale anticipazione e predeterminazione delle dinamiche sociali. Giocoforza è svolto dalla critica, di tutte le appartenenze politico/ideologiche. Questa fa infatti da cassa di risonanza, attribuendo senso e referenzialità sociologica a tutti i prodotti che esprimono questa liminarità immanente. E che tali prodotti provengano dall'industria culturale, abbiano una connotazione di merce, poco importa. Ecco dunque che Cyberpunk e filmografia relativa (Total Recall, Robocop, etc.) divengono, nel contesto interpretativo della critica, futurismo apocalittico/apologetico della tecnologia telematica; la musica rap espressione delle entropie metropolitane; l'horro-splatter sublimazione della violenza o della materialità reificata; il serial/teleromanzo/soap-opera manifesto dei valori e disvalori dell'interazione sociale, degli status-symbol della coscienza contemporanea. Come in tutte le transizioni, l'incognita si trasmuta in oscurità: il noir spazia ovunque, dai fumetti di Frank Miller alle perversioni di Twin Peak. Infatti, l'immagine della TV, come uno specchio inverso, si riflette innanzitutto dentro una stanza, e in questa stanza, lo spettatore assorbe l'esteriorità crudele del mondo fuori, la quale diviene calda e stimolante, d'un calore perverso (Jean Baudrillard, La società dei consumi).
8. MASSIFICAZIONE A MISURA D'UOMO.
Aumento delle possibilità di scelta, di settori di consumo differenziati (PAY-TV): non ha più successo ciò che omologa, ma ciò che distingue. Il possesso d'un proprio microcosmo di consumo che distingue. L'industria culturale, diversificandosi, deterritorializzandosi nello spazio, orienta la codificazione di ogni settore: minoritario, individuale, alternativo, antagonista. Nella massificazione a misura d'uomo, nell'omologazione personalizzata, il videodrome si capillarizza, si scompone, e il sistema diadico spettatore-teleschermo diviene principium individuationis della totalità. Con la sua strategia avviluppante, il videodrome totalizza la molteplicità; assume l'identità di un grande nulla in perpetua autorappresentazione ed autoriproduzione, pensiero di se stesso, come il Dio della filosofia Scolastica.
9. FAMIGLIA: RUSCO DELLA SOCIE-TÀ/INCENERITORE DELL'INDIVIDUO.
La crisi della famiglia è una invenzione, in realtà questo nucleo di implosione, questo rito suicida tra individualità mancate, svolge ancora la sua funzione sociale e politica, sia nella forma più tradizionale, sia in quelle di trasmissione di una struttura di regole distorte, che permeano il funzionamento di ogni gruppo ufficiale o informale. Infatti deve funzionare e seguire in modo omogeneo, perché la sua caratteristica principale e basilare è la stabilità. Per far questo ha bisogno di ruoli fissi, di forme di comportamento e comunicazione precodificate. Ci si abitua così ad essere solo genitore o figlio, giudice o giudicato, dipendente comunque in una logica di dualità che forme il carattere, ossia impedisce in realtà la formazione di un soggetto non rigido e creativo nel senso più pieno del termine. Così i figli apprendono il linguaggio dall'esterno, dalla famiglia di origine e da quella allargata dei media, e l'esterno a sua volta si appropria delle distorsioni infantili di linguaggio, in un gioco di specchi aberrante che non ha nulla di nuovo. Ci si abitua all'impossibilità dello scambio di comunicazione, ma ci si abitua a viverlo in famiglia, o in gruppo, e questo attenua la disperazione, rendendola sopportabile, ne fa il sottofondo quotidiano, impedendo così ogni possibilità reale di rivolta o suicidio. Siamo assuefatti alla solitudine e alla protezione dello squallore familiare. Fritz Lang fa dire ad una sua attrice ... casa è dove vai quando scappi da qualche posto.... La casa, la famiglia, quindi, è come un guscio soffocante e indispensabile, che si cerca per sempre nelle nicchie esistenziali, sociali o teoriche. Se forse un tempo era possibile sfuggire all'idea di famiglia, oggi non si può più, stretti nella morsa della falsa nostalgia avocata dalla famiglia spettacolarizzata e dalla compuslione continua ad adeguarvisi. Non ci si libera da un mito, e il cadavere santificato delle famiglia plasma gli individui e la società.
10. L'INCONSCIO COME PIAZZA DEL MERCATO.
«Se a un paziente capita di parlare al suo analista per esempio del suo padrone o del Presidente della Repubblica, lo psicanalista registrerà probabilmente solo delle identificazioni paterne. Dietro la ricevitora delle poste o la speaker della televisione, non vedrà proliferare altro che una immagine materna universale. E, in un senso più generale, attraverso tutte le forme che si agitano intorno a noi, lo specialista ritroverà dei sessi maschili o femminili, degli strumenti di castrazione simbolica, ecc.. Tutto questo sistema di corrispondenza simbolica non mancherebbe di fascino se non fosse preso a senso unico. Perché se dietro il padrone ci può essere in qualche caso un padre — ciò che fa parlare, a proposito di determinate imprese, di paternalismo — dietro il padre di un bambino, vi è anche, molto concretamente, un padrone, o un superiore gerarchico. La funzione paterna nell'inconscio è inseparabile dall'inserzione socio-professionale di colui che ne è il supporto. Dietro la madre, esiste un certo tipo di condizione femminile nel contesto di un inconscio sociale e politico particolare. Il bambino non vive all'interno di un mondo chiuso, che sarebbe quello della famiglia. La famiglia è permeabile a tutte le forme di ambienti, a tutte le influenze del campo sociale. Glia Apparati collettivi, i mass-media, la pubblicità non smettono di interferire con i livelli più intimi della vita soggettiva. L'inconscio, insisto, non è qualcosa che incontra soltanto in sé, una specie di universo segreto. È un nodo di interazione macchinica attraverso il quale noi siamo articolati a tutti i sistemi di potenza ed a tutte le formazioni di potere che ci circondano». (da F. Guattari).
11. DELLA MISERIA NELL'AMBIENTE STUDENTESCO.
«...Quando non gli cagano in bocca, gli pisciano di nascosto nel culo. Così lo studente, sfuggito — egli crede — alla logica della famiglia e dello Stato, raggiunge un orgasmo impotente nella ricerca di un partito rivoluzionario che possa soddisfare il suo masochismo, di un nuovo padre che lo disprezzi e lo comandi. Il cristianesimo maoista gli giustifica ideologicamente il suo sacrificio sull'altare dell'avanguardia del proletariato.». (Internazionale Situazionista. Strasburgo 1966).
12. LA SFIDA: IL SALTO LOGICO.
Si può ancora lanciare la sfida del soggetto, che diviene tale con l'atto di rivolta: il salto logico (3). Ovviamente i vecchi progetti rivoluzionari, dell'era del politico, non funzionano più. Non c'è più nulla da espropriare, la produzione si basa tutta su progetti di morte. Non c'è società da autogestire, ci sono individui isolati, ma massificati, e strutture statali di controllo. La rivoluzione non può più sedurci con il contropotere, può farlo solo con le pratiche dell'anti-potere (dell'anarchia).
13. SULL'OCCUPAZIONE DEGLI SPAZI SOCIALI.
a. UNO SGUARDO SUL PASSATO. Autorganizzarsi per occupare tutto. Questa era la parola d'ordine che circolava fino a qualche mese fa, all'interno del movimento bolognese. Dai demoproletari dell'Unione Inquilini all'area composita e variegata degli universitari autorganizzati, dagli autonomi della Fabbika ai CPT e annessi dello Zanardi, dai punk di P.P.M.8 agli extracomunitari, molti avevano eletto il piede di porco a simbolo del movimento. Nugoli di occupanti, o aspiranti tali, si aggiravano freneticamente in quei tempi per le vie della città. E sotto le due torri Bologna appariva, fino al mese di dicembre, come un'isola felice all'interno di una situazione complessiva nazionale che non arrideva certamente al movimento delle occupazioni. Lo sgombero del Leoncavallo nell'agosto del 1989 era stato il preludio di una più vasta e articolata offensiva da parte del potere, che si era concretizzata in continue intimidazioni e, nel peggiore dei casi, in veri e propri sgomberi manu militari. Conchetta 18, Gramma, ex-Saffah, Kerosene, Fenix, erano diventate tante croci nell'immaginaria cartina topografica delle occupazioni in Italia. Nel frattempo a Bologna si continuava a occupare. Sembrava quasi che gli effetti del PIANO TREVI (una strategia repressiva comune a tutti i Ministeri degli Interni europei, i quali rilevavano come nuovo focolaio di sovversione e terrorismo il fenomeno delle occupazioni di case e centri sociali) non riguardasse questa laida e sonnolenta città di provincia. Ma, con panettone e torrone, le feste natalizie portarono doni ben sgraditi ai nostri. Nel giro di due mesi vennero sgomberati i seguenti spazi occupati: C.S.A. Zanardi 28 (22/12/90), C.S.A. Fabbika (22/12/90), Kapodilukka (17/2/91), C.S.A. di via Matteotti (22/2/91). A partire da questi ultimi due sgomberi, alcuni compagni hanno ritenuto necessario l'avvio di una discussione sulle occupazioni. Inizialmente poche voci, poi sempre di più a far da contraltare ai militonti e agli integralisti/khomeinisti dell'occupazione. Dentro questa discussione noi ci siamo.
b. DENTRO L'AUTORAPPRESENTAZIONE. Ci sono due tipologie di Centro Sociale che forse più di altre si sono sviluppate in Italia, e anche nella nostra città. La prima è quella che intende il Centro Sociale come luogo di raccolta, contenitore di richieste di lotta legate ai bisogni proletari più immediati (casa, spazi per suonare, centro terapeutico alternativo contro l'eroina e l'emarginazione, ecc.). I compagni che lavorano all'interno di questi Centri utilizzano, ad esempio, i concerti come momento di controllo, utili essenzialmente ad autofinanziare le iniziative di lotta in corso e il Centro Sociale stesso, nell'ottica essenzialmente gestionista. Sopperire alle mancanze mostrate dagli enti pubblici, accudendo i bisogni proletari. Fare politica al servizio delle masse proletarie, in una ottica di sacrificio, in cui il militonto si cala completamente. Ma se sacrificio dev'essere, che vi sia la ricompensa, ovvero il riconoscimento del proprio ruolo, anche in qualità di punto di riferimento delle lotte proletarie a cui partecipa. Da qui il conflitto che ne deriva per stabilire l'egemonia del movimento o per stabilire la direzione che la lotta deve prendere. Questa situazione emerge chiaramente nella sua totale idiozia durante le assemblee di movimento, che da un po' di tempo hanno ricominciato a riempire (funestare) le nostre giornate. Prima il silenzio, poi l'introduzione del compagno che ha il compito di rompere il ghiaccio e via via, come rulli compressori, per ore ed ore, monotonamente, si succedono interventi del tipo siamo solo noi il movimento antagonista. Evidentemente gli stati di allucinazione risultano essere elemento indispensabile di questi veri e propri balli in maschera. L'ideologia innanzitutto, nulla importa se passioni, desideri, voglia di vivere altro, vengano congelati dentro una uniformante griglia di ragionamento. In questo pantano, in questo teatro dell'assurdo, prime donne, attori caratteristi, comparse, pubblico sono ugualmente responsabili. Intanto, all'esterno, le trincee dell'occupazione, i Fort Apache dell'ideologia, vengono sgomberati dagli sbirri, mentre il militonto, nella sua impotenza politica, non trova di meglio da opporre che una ulteriore occupazione (magari dello stesso spazio), in una logica azione-repressione che fa sicuramente comodo al potere.
c. DI QUANDO JOHNNY ROTTEN BUSSÒ IN VIA S. GIUSEPPE.
Un altro esempio di come viene concepita una occupazione è rapprensentato dal discorso dell'autoproduzione e della costruzione di un circuito alternativo, culturale e musicale. Gli occupanti si trasformano in veri e propri manager della cultura alternativa (altra forma di gestionismo). Sicuramente professionali, magari anche con il telefono, ma che in quanto fornitori di cultura alternativa non possono interessarci. Non ci interessa un discorso alternativo, non ci interessa qualcosa d'altro, non ci interessa un contropotere politico o musicale da opporre al potere dello Stato. Noi siamo per la distruzione del potere, tout court. D'altronde riteniamo che questo tipo di progetti-pilota siano comunque facilmente recuperabili da parte delle istituzioni. È sempre accaduto così, la più grande truffa del rock n'roll ce l'ha mostrato. Quando qualcuno di questi alternativi passa dall'altra parte dela barricata fornisce degli utili strumenti di decodificazione della cultura giovanile. Fino ad ora tutto è stato recuperato. d. Il futuro del movimento bolognese rischia di proiettarsi come l'eternizzazione di tutte le sconfitte passate. La riproposta dei medesimi schemi e forme d'azione che hanno portato alla disfatta equivale alla prenotazione del posto in prima fila per lo show del proprio sacrificio venturo. Autoconvincersi di essere ciò che il senso comune codifica e trasmette (cattivi, duri, irriducibili) si rivelerà presto una magra consolazione per i militonti che rinunciano all' efficacia immediata della ragione rivoluzionaria. Scrisse Giorgio Ceserano nel suo Manuale di sopravvivenza, un anno prima di suicidarsi: «... c'è un modo di cortocircuitare in violenza perfettamente spettacolare l'immediata volontà di trasformarsi, trasformando a un tempo il mondo, che è la più patente rinuncia alla propria efficacia radicale. È così che l'autodistruzione si camuffa nel Beau Geste distruttivo, quando il rivoluzionario si riduce ad essere niente più che il tipo di eroe moderno cui danno lustro imprese derisorie in una situazione di smarrimento. Non verrà mai ripetuto a sufficienza che il furore della specie (umana, n.d.r.) deve sapersi guardare dalla sua troppo agevole sussunzione a quello spirito essenzialmente omicida-suicida che è dell'essere-capitale. Ciascuno che umilii la propria volontà di trasformare il mondo, trasformandosi nell'attore-spettatore del proprio sacrificio, si inchioda alla croce del dubbio ortogonale alla disperazione».
d. DUE GRADINI PIÙ IN ALTO DEL GRADINO PIÙ BASSO.
Ancora oggi nei momenti assembleari dei movimenti molto spesso assistiamo solo a spettacoli di autovalorizzazione del ceto politico e schermaglie fra preconfezionati discorsi, o linee delle tendenze di appartenen-za. E nei peggiori dei casi le assemblee rassomigliano ad una sorte di parlamentino in cui la tendenza che primeggerà si garantirà il governo del movimento. «Siamo democratici, facciamo parlare tutti!». Paradossalmente è la democrazia che leva la parola. Si, tutti quelli che non hanno il linguaggio politico sono senza parola, perché nella democrazia non c'è il confronto, c'è solo la mediazione, la rappresentazione di tendenze, di discorsi politici. Si riproduce il vecchio mortifero Spettacolo. E anche il pensiero critico che vuole attaccare tale spettacolo viene risucchiato nell'omologa-zione della rappresentazione: fa comunque tendenza, a cui si appartiene, a cui si cede la propria individualità soggettiva (l'intervento parla l'intervenuto). Il militantismo fa il resto. Evidentemente la logica che sottende i meccanismi e le dinamiche degli intervenuti in assemblea è una logica che appartiene al POLITICO, e che non riconosce, non fa contare i discorsi che non si autoetichettano e che non si riesce ad etichettare. Tutto ciò si trova ora ad un gradino più basso della realtà del potere, mentre la soggettività rivoluzionaria si potrà esprimere solo ad un gradino più alto di quello della realtà. È l'utopia, il luogo dive è possibile contaminare la vita facendo proliferare le diversità dei modi di praticare la rivolta.
e. NEL LABIRINTO DEL VIDEODROME.
Se è vero che occorre essere irrappresentabili, rapidi anche da fermi, uscire dalle trincee e gettare le vecchie spingardine, correre per cercare nuove armi, ciò è soprattutto vero nei confronti dei mass-media. La mitologia da occupante, duro, torvo, estremista è forviera di gravi danni al movimento. La nostra lotta è di fatto massmediatica. Insultiamo, aggrediamo il giornalista di turno ma poi quando ne abbiamo bisogno (cioè nel corso delle lotte specifiche) lo andiamo a cercare, a volte lo lusinghiamo. Si direbbe un complesso edipico di amore-odio nei confronti del padre; crediamo di giocare i media, di usarli, ma la verità è che loro usano noi rinchiudendoci nell'ottica di ragionamento per cui ciò che non appare, non esiste. Invece è esattamente vero il contrario: ciò che appare, per ciò stesso, non esiste in quanto comincia a sgretolarsi come realtà per divenire spettacolo, infinitamente ricodificabile perché scomponi-bile/rimontabile in immagini. Occorre dunque esistere non apparire.
f. ...E UNO SUL FUTURO.
Occorre avviare una riflessione sul nostro essere spettacolo di mercificazione politica, reinventandoci forme di antagonismo sociale più incisive, che siano sempre un passo avanti all'immagine. Non abbiamo nulla da proporre a tavolino, vogliamo solo auspicare il superamento degli attuali modelli di intervento avanzati, che sono frutto di apatia e di rilassatezza mentale e sanno indubbiamente di muffa. Denotano infatti un precoce invecchiamento in chi nonostante tutto li sostiene, convinto di essere antagonista di un mondo che invece lo costringe a servirsi delle sue stesse armi e lo porta allo scontro finale e decisivo sul proprio terreno. Alla logica del potere, al suo impatto distruttivo, si può e si deve rispondere colpendo in maniera diversa, evitando il fronteggiamento del muro contro muro. Essere astuti, rapidi, fantasiosi, utopici, folli, sicuramente non prevedibili, altrimenti si finisce per assomigliare a quel pugile che in evidente inferiorità continua ad incassare colpi dall'avversario agitando a vuoto le sue braccia. Per quanto possa reggere sul ring, prima o poi il conteggio arriverà anche per lui. Occorre rifiutare la trincea, la guerra di posizione, le linee Maginot, insomma il Piave dove non passava lo straniero, occorre colpire/fuggire, trasformandosi ogni volta, evitando la pratica idiota dell'autorappresentazione, giacché, ora come ora, non avremo da rappresentare che la nostra imbecillità.

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