N.ro 3

PENSIERI SPARSI SU UTOPIA, AUTOGESTIONE E INIMICIZIA VERSO L'ESISTENTE
di Massimo Passamani

Sull'utopia. Tra funerali e desiderio. Ogni utopia è finita. I grandi ideali di cambiamento sono morti (per autoconsunzione). Così di coro. Superando il fastidio che mi procura il continuo ripetersi di questi funerali, provo a sviluppare qualche riflessione. Se per utopia s'intende una costruzione ideologica nel cui nome subordinare i singoli, una missione in vista della quale differire continuamente le proprie attuali passioni, il fantasma da rincorrere di chi vuole costringere tutti a sognare lo stesso sogno — se utopia è tutto questo, della sua scomparsa non si può non rallegrassi. Santificazione e sacrificio sono il territorio di ogni tirannide, il cerchio magico di ogni oppressione. Ma è chiaro che c'è dell'altro. Innanzitutto non è spiegabile in che modo, stante questa definizione di utopia, essa possa essere considerata qualcosa di esterno o di superato rispetto alla presente società.
Il sacrificio dell'individuo è il perno dell'attuale amministrazione sociale, l'alienazione dei desideri è la forma in cui si realizza la sua riproduzione, l'identità dei sogni è l'incubo di un dominio tecnologico sempre più reale. È ogni giorno più chiaro come la democrazia procura da sé, spettacolarmente, i propri nemici. L'odierna organizzazione societaria, infatti, viene salvata non in base ai suoi risultati, bensì attraverso una collaudata strategia di emergenze e un abile gioco di rimandi. Tutto quello che va al di fuori di questo sistema non può che essere terrorismo, delirio, pazzia. Attraverso l'appello ideologico alla lotta contro fenomeni mistificatoriamente presentati come esterni o marginali (mafia, droga, fascismo, eccetera) si organizza, quindi, la difesa dell'esistente, fatti salvi, talvolta, alcuni debiti — e sostanzialmente inutili — distinguo. Anche considerando l'utopia come ideale etico-politico praticamente irrealizzabile, essa si addice perfettamente all'ideologia della presente organizzazione sociale. È realizzabile, infatti, un esercizio del Potere che non tenda a riprodurre se stesso schiacciando chiunque lo subisca? È possibile una forma ecologica di sfruttamento? Si può ancora, senza scontrarsi con le armi della derisione, spacciare la neutralità della Scienza? Utopica, allora, è la libertà concreta all'interno dello Stato e del Capitale. L'utopia che tutti si affrettano a dichiarare morta non è, dunque, l'ombra del totalitarismo, né il continuo richiamo di una sublime astrazione, bensì quello sguardo ulteriore, quella tensionalità — non sacrificale, ma desiderante — che spingono oltre il luogo dell'autorità, della merce, del lavoro. È quello spazio dove le differenze possono coabitare senza essere superate, dove è possibile agire i contrari, dove l'uguaglianza non è appiattimento, ma ricerca di una soglia di affinità in cui realizzare le proprie singolarissime potenzialità. Non è un nuovo radicamento della politica, ma un sovvertimento che porta i singoli «dove non è più possibile all'uomo mettere radici, e dove dunque non può esservi politica, che è per l'uomo come il fumo del suo sigaro» (H. D. Thoreau). L'utopia non si percorre, come pensavano coloro che si sentivano dalla parte della Storia, con la marcia, bensì con la danza, nell'ignoto di continue escursioni senza guida. E, soprattutto, non vi sono garanzie né conquiste definitive. Non esistono diritti né doveri, né meccanismi o fondamenti oggettivi (siano essi lo Stato, la Comunità o la Natura) che possano salvare da una sperimentazione continua. La differenza di cui si fanno portatori il pensiero e la pratica dell'utopia non è l'altro termine di una dialettica che produce (o conclude) la Storia, non è la fase necessaria di un movimento ascendente in cui tutti gli opposti si riconciliano. Essa è artifizio, contrasto permanente, gioco. La base su cui regge il dominio non è il conflitto, bensì il tentativo, che diventa costruzione sistemica, di risolvere in modo autoritario e coattivo i conflitti. L'anarchia — certo, la mia anarchia — non è dunque l'eliminazione del conflitto, ma la sua radicalizzazione. Le differenze che si vogliono distruggere, poniamo le differenze di classe, che cosa sono, infatti, se non il superamento gerarchico delle differenze tra gli individui? Rifiutare quelle significa affermare queste. «Ciò che si oppone converge, e la più bella delle trame si forma dai divergenti; e tutte le cose sorgono secondo la contesa» (Eraclito).

Pietre e fluidi.
Che il castello di mistificazioni e di alterazioni ideologiche con cui sono stati fondati e di volta in volta legittimati l'autorità e lo sfruttamento si sia automizzato, è un pensiero che è venuto spesso agli a-crati, agli al di fuori, a tutti coloro che vogliono vivere senza governare e senza essere governati. Che siano i partiti politici, ad esempio, ad essere subordinati all'apparato dei media, e non viceversa, è qualcosa che si può intuire anche senza ricorrere all'abusata — e forse in parte inadeguata — nozione di Spettacolo. Ciò che sfugge, forse, è che è la comunicatività stessa ad essere stata resa autonoma. «Ciò che impedisce la comunicazione è la comunicabilità stessa. Gli uomini sono separati da ciò che li unisce» (G. Agamben). Di fronte alle continue emergenze (disoccupazione, pericolo della Destra, eccetera), al diffuso opinionismo (inteso come ideologia dell'Opinione), alla mistica del Nuovo, la difesa di una intelligenza critica s'impone sempre più come elemento fondamentale per una pratica di diserzione attiva dai meccanismi del dominio. Va da sé, comunque, che essa non basta. Anzi, dilazionando continuamente l'aspetto pratico in nome di un approfondimento analitico (o genealogico, come usano dire adesso gli specialisti) ci si trova nuovamente di fronte a pensieri e parole «duri come sassi» (Nietzsche), cioè, prima fra tutte, all'illusione di un sapere cumulativo che possa sgomberare da ogni possibile errore il campo dell'azione. Questa illusione, che è una delle più dure a morire, si ripresenta spesso sotto nuove vesti. Anche se l'intento di alcuni è quello di rovesciare il quadro epistemologico e non di elencare e archiviare dati (la sconfitta e la miseria di ogni ipotesi di controinformazione, infatti, sono sotto gli occhi di tutti), l'ideale tassonomico non tarda a farsi avanti e lo sforzo di ripensare i percorsi di liberazione comincia a porsi fuori della pratica quotidiana. Affermare la necessaria coincidenza di pensiero e azione non è solo un'esigenza etica (di un'etica, sia chiaro, del desiderio e non dell'abnegazione), ma anche la convinzione che essi siano due poli che si alimentano a vicenda, come un fluido; è l'azione a fornire strumenti di riflessione, e viceversa. Tanto più che l'intelligenza fa presto a fissarsi in quella Ragione le cui pretese hanno da sempre cancellato ogni differenza, ogni eccesso del corpo. Certo, la violenza della Ragione ha spesso anche assunto le sembianze di un mito della Prassi che tanti cuori ha incatenato e che ha portato diritto fino alle dittature. Nemmeno nell'azione vi possono essere garanzie. Importante è fare tesoro di tutti quegli spunti critici che in questi ultimi anni sono stati elaborati, utilizzandoli, per la maggior parte, contro le stesse intenzioni degli autori. Visti i progetti tecnologici dello Stato e del Capitale, tesi a ridurre e ad alienare sempre più gli strumenti linguistici e del sapere, qualsiasi saccheggio ai danni dell'industria culturale non può che essere un importante momento di crescita individuale. Non sorprenda, comunque, nell'attuale miseria, vedere professori e intellettuali che per anni hanno messo in evidenza l'aspetto provvidenzialistico dell'idea di Progresso — un'idea che, presupponendo un fine alla storia, è tutta interna all'escatologia cristiana — sostenere lo schieramento progressista. Hanno sempre detto che la concezione finalista porta ai campi di concentramento, ed eccoli dalla parte dei carcerieri. Tutto perfettamente razionale. Ciò che forse deve stupire un po', invece, è che degli anarchici inseriscano tra i mali della politica l'ingovernabilità (mi riferisco al retro di copertina del pamphlet di Bookchin, La democrazia diretta, edito qualche mese fa da Elèuthera). Sarà il peso degli Avvenimenti.

I richiami della POLIS.
Perlomeno da Macchiavelli in poi per politica s'intende la scienza dell'esercizio del potere, quell'insieme di tecniche con cui si costituisce e si difende l'autorità. Nel tentativo di ricreare uno spazio pubblico non statale si è cercato di recuperare un'altra nozione di politica, intesa come gestione comunitaria, come autogoverno della polis. Questa definizione risale, proce-dendo sempre per schemi, ad Aristotele. Come noto, per quest'ultimo l'uomo è un animale politico (zoón politikón, appunto). Essendo l'uomo sociale per natura, la sfera della polis si identifica con il regno della libertà. Ma per Aristotele la società non è solamente il dispiegamento di bisogni e desideri naturali. Nella dimensione politica, oltre a situarsi la spontanea cooperazione tra gli uomini, si realizza il fine dell'uomo. Anzi, si potrebbe dire il Grande Fine, il Telos. In questa concezione c'è già in nuce la politica come còmpito, come missione e, in ultima analisi, come attività separata. Se si aggiunge poi il culto del Bene Comune come obiettivo cui subordinare i desideri del singolo, vediamo la politica (che non è l'atto di associarsi tout court) già configurarsi come dominio. Ovunque vi siano sacri doveri c'è sempre sacrificio. Senza nulla togliere all'importanza di ripensare le categorie concettuali che si usano, non è inutile ricordare che qualsiasi sottomissione dell'individuo alla macchina sociale — sotto forma di obbedienza alle istituzioni statali o ad un'ipotetica assemblea comunitaria — è la peggiore delle tirannie, anche qualora venisse esercitata dalla maggioranza assoluta. Non a torto qualcuno ha intravisto proprio nella dottrina aristotelica le successive religioni cristiano-liberali, l'ombra funesta delle forbici della civiltà.

La miseria delle garanzie.
Quando sento parlare della necessità di essere propositivi, di uscire dall'isolamento, la reazione più spontanea che nasce in me è quella della diffidenza. E questo non solo perché la maggior parte delle volte il superamento del ghetto e la concretezza delle azioni sono ricatti ideologici con cui vengono giustificati l'appiattimento e l'integrazione (troppo spesso, infatti, si cerca di spacciare il conformismo per apertura mentale, l'azzeramento delle differenze per rifiuto del settarismo). Ciò che mi spinge alla diffidenza è anche la sensazione di come alla base di questi discorsi vi sia il bisogno psicologico di garanzie. In questo bisogno non si occulta soltanto la vecchia illusione quantitativa, o l'altrettanto vecchia ideologia del fronte unitario (magari adesso contro il pericolo della Destra). C'è soprattutto l'incapacità — che in varia misura ciascuno avverte — di pensare oltre l'esistente. Credo che nell'ipotesi del municipalismo libertario vi siano molti di questi aspetti. Le tecniche di amministrazione verso le quali si sta dirigendo il dominio statal-capitalista si configurano sempre più come un sistema di relazioni basato sulla partecipazione. La gestione del territorio viene affidata sia a livello politico sia a livello economico a forme di relativa autogestione. Le possibilità della tecnologia permettono di realizzare il controllo sociale e la riproduzione dell'esistente anche attraverso il volontariato diffuso e l'associazionismo di base. Senza voler analizzare le trasformazioni avvenute all'interno della dimensione produttiva e nell'organizzazione del lavoro, mi interessa mettere in evidenza, attraverso qualche stimolo per la riflessione, come l'ipotesi municipalista si collochi sul terreno del recupero.(1)
Che essa possa essere un'ipotesi vincente, non stento a crederlo. Quando si abbandona la strada della rivolta contro l'esistente — si vince sempre.

Municipalismo e integrazione
Il logos, suggeriva una sentenza di Eraclito, è per gli uomini il vero elemento comune. È il loro essere linguistico il tratto che li unisce. Li unisce, però, nella diversità. Se esistesse veramente, infatti, una ragione universale, una, la comunicazione sarebbe impossibile, giacché ognuno conoscerebbe, in quanto anche suoi, i pensieri dell'altro. È la singolarità della ragione che spinge l'uomo a comunicare. Quello che lo Stato e il Capitale hanno alienato e reso autonomo (e ciò è qualcosa di più di una semplice fissazione di immagini) è l'elemento linguistico stesso, lo spazio del comune. La comunità reale (che è, ripeto, comunità tra diversi) si è ora trasformata nel suo simulacro. La tecnologia sta costruendo le comunità virtuali come fuga integrata da un mondo sempre più intollerabile. Non si tratta di semplici macchine (che il prometeico sogno di liberazione di qualcuno fa intravedere come diversamente utilizzabili), ma di un'intera organizzazione sociale. Le nostre vite si trascinano in contenitori sempre più anonimi — un anonimato cui, come è stato notato, paradossalmente si accede solo dopo una schedatura; soltanto dopo aver fornito, cioè, la propria identità, (fittizia, mercantile, legale). Dal momento che le relazioni umane sono interamente mediate dal lavoro (inteso non solo come salariato, ma come funzionalizzazione alla società), e l'ambiente è sempre più un prodotto pubblicitario, un non-luogo, la ricerca di identità si sposta verso proiezioni collettive, verso sfere pubbliche in cui riconoscersi. Di qui il violento rinascere dei localismi, delle rivendicazioni etniche: in breve, dell'ideologia comunitaria. La proposta municipalista è proprio il tentativo di ri-fondare uno spazio comunitario, laddove nessuna comunità è ormai possibile. Questa proposta sottende la convinzione che percorsi di autogestione (intesa non tanto come metodo di lotta, ma come forma di organizzazione sociale) siano possibili, partendo magari non più dalla centralità della fabbrica, ma dalla centralità (si noti: centri sociali) degli spazi occupati e delle altre forme di sperimentazione libertaria. Ciò che non si intuisce è che la gestione stessa (l'amministrazione) del territorio è una dimensione del Potere. Ugualmente per la produzione. Dove c'è misurabilità del tempo, c'è prestazione, c'è Lavoro — anche se non assume i tratti della rimunerazione salariale; il consumo stesso è lavoro. La tecnologia, l'urbanistica medesima, si basano sull'alienazione e sul controllo dei songoli, sulla violenza dei rapporti mediati, sul sacrificio della creatività.

Autogestione o distruzione dell'esistente.
In tanto parlare di autogestione, forse proprio la domanda più radicale è stata elusa. Qual'è, cioè, il chi cui l'autogestione si riferisce, chi è l'autós che questo concetto indica? Banalmente, tutte le strutture esistenti, dai gruppi del volontariato alle istituzioni statali, si autogestiscono. Se non si vuole ricostruire una nuova oppressione, o integrarsi in quello attuale, l'autogestione non può che diventare la dimensione — relazionale, certo — dell'individuo. Il singolo si autogestisce se è proprietario del suo tempo e se può partecipare alla creazione del proprio spazio. Se, in una parola, può avere dei rapporti di reciprocità. All'interno di un territorio telematico dominato dalla mediazione, quale si sta configurando la presenza dello Stato e del Capitale, questa prospettiva non può che essere quella della difesa attiva, dell'attacco. Come eccesso di desiderio, come amore di ricerca. In un mondo che si sta sempre più trasformando in un terrificante guanto virtuale, per chi vuole percorrere la nonviolenza della distruzione, preziosa conforta l'antica sapienza: «chi non spera l'insperabile non lo scoprirà, poiché è chiuso alla ricerca, e a esso non porta nessuna strada» (Eraclito). Dove sapere allude ad un'intuizione, ad un'ipotesi di percorso. Forse l'utopia è proprio questo: non una mèta, bensì, appunto, una strada.

(1) Voglio tacere qui, per cortesia, ogni valutazione sulla pratica — che molti municipalisti accettano — di presentarsi alle elezioni amministrative.

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