N.ro 3

PARTECIPAZIONE E AUTOGESTIONE: CARIATIDI DELL'IDEOLOGIA DELL'INTEGRAZIONE.
di Vincenzo telerico

Dell'autogestione se ne inizia a parlare più diffusamente, anzi, diventa una tematica di moda delle forze politiche e sindacali, negli anni settanta, in quel periodo, cioè, in cui il sistema di dominio statal-capitalista attua una sua trasformazione: il sistema economico è passato dall'ambito produttivo a quello del consumo — è il consumo il limite e il funzionamento della società neo-moderna; il sistema amministrativo deve liberarsi del caricamento di senso che la politica gli attribuisce, per razionalizzarsi e nel contempo capillarizzarsi nel sociale — cosa che sta realizzando pienamente soltanto oggi. Nello stesso periodo, però, tensioni sociali e lotte rivoluzionarie, che facevano proprie le pratiche e le categorie dell'autogestione delle lotte, rappresentavano un'effettiva crisi per il sistema, il quale doveva ricompattare il coinvolgimento istituzionale per poter praticare dure forme di repressione. La partecipazione prima, e a ruota l'autogestione, sono state le nuove creature dell'ideologia dell'integrazione sociale proprie della ristrutturazione industriale che ci ha portato dall'economia della produzione all'economia del consumo, caldeggiate dai sindacati e dai partiti di sinistra, paladini anche della razionalizzazione amministrativa. A livello industriale già da tempo si cercava di integrare ai modelli tayloristici di parcellizzazione del lavoro (mansioni) dei sistemi di coinvolgimento dei lavoratori all'azienda. In un primo tempo tali sistemi erano solo psicologici (vedi le Human Relations), poi con la partecipazione e l'autogestione di singole fasi del lavoro (tramite la formazione dei gruppi) tale coinvolgimento dei lavoratori si è attuato non solo integrandosi alle strategie di controllo derivanti dalla divisione del lavoro nelle aziende (si è arrivati oggi, a partire dalla job rotation, dalla job enlargement, dai work group e dal work system, alla cosiddetta qualità totale), ma anche nell'intera società, tramite la politica sindacale tesa a cogestire livelli di programmazione e di gestione dello sviluppo economico-sociale (qualunque rivendicazione intesa ad ottenere un maggior potere d'acquisto della rimunerazione salariale, si scontra con gli imperativi idealisti dell'interesse generale, dell'economia nazionale ecc.). Ciò è avvenuto anche tramite il recupero delle lotte operaie che in quel periodo ancora si attuavano nelle fabbriche e che, partendo proprio da una presunta centralità sociale dell'azienda e della produzione, presupponevano un possibile «processo rivoluzionario come costituzione di organismi di azione diretta, fabbrica per fabbrica, e poi una loro federazione per prendere il controllo totale sulla produzione, una rinata repubblica dei consigli».(1)
Qui l'ideologia del lavoro, propria anche di una parte del pensiero anarchico (da Pruodhon all'anarcosindacalismo), è tutta presente. Si tratta della visione della riorganizzazione della società liberata a partire dal lavoro: il lavoro, e con esso la produzione, è il perno su cui ruoterebbe l'intera società, in quanto il lavoro è considerato il luogo di una prassi storica particolare, di una cultura particolare, che genera particolari rapporti sociali. Un secolo di lotte rivoluzionarie si può iscrivere in questa visione. L'autogestione generalizzata presuppo-neva l'eliminazione dello Stato e la presa in gestione diretta prima della produzione e con essa del resto della società. Il nemico da eliminare era lo Stato ed il tipo di gestione capitalistica dell'esistente, non la società, con le sue strutture istituzionalizzate. Ideologicamente veniva dato al lavoro il senso di una funzione sociale e di una attività creativa intrinseca ad esso, che, però, in realtà non ha. Il lavoro, fondamentalmente, non può distinguersi dal rapporto salariale, ed esso non solo ha determinato lo sviluppo della struttura produttiva e dell'organizzazione mercantile dei prodotti, ma rappresenta anche, e sostanzialmente, la subordinazione del salariato al sistema. Nel rapporto salariale non c'è solo la mistificante corrispondenza mansione-reddito (quando in realtà il reddito è deciso da una struttura più ampia della fabbrica, corrisponde ad una tariffa fissata da un contratto, o dalla necessità della riproduzione della forza-lavoro, ed il sistema dei redditi è anche un modo di organizzare la produzione. Quindi, già per questo aspetto, il lavoro è un nodo di un sistema di relazioni non interno ad esso, ma che lo determina), c'è anche la forma di gestione e la stessa forma di lavoro, nel senso che la fabbrica è una conseguenza dell'organizzazione sociale della produzione. E ciò ha significato, e significa, che l'autogestione nella sua forma immediata della produzione non rappresenta assolutamente la soppressione delle costrizioni, quanto l'interiorizzazione di esse da parte del lavoratore. Fintando che resterebbe il rapporto salariale, l'autogestione è solo una mansione in più. «Un superamento del sistema salariale esige invece ...la non-misurabilità dei lavori. ...L'abolizione del rapporto salariale esige forse qualcosa di più [dell'autogestione]: non solo il rovesciamento dei metodi con i quali si suddividono i compiti, ma anche di quelli che li definiscono; non solo la scomparsa della divisione del lavoro, ma anche quella del lavoro. Solo la perdita di importanza del meccanismo per il quale una retribuzione viene legata alla fabbricazione di un prodotto, all'occupazione di un posto, ad una posizione nella fabbrica, potrebbe comportare la scomparsa del sistema salariale... Una decisione può essere veramente collettiva, un controllo può stabilirsi efficacemente, una collaborazione può stabilirsi solo se nessuno dei loro effetti si configura come sanzione economica, né comporta una valutazione dell'individuo».(2)
Comunque, il recupero delle lotte operaie tramite la ristrutturazione industriale avvenuta dalla metà degli anni settanta in poi, ha comportato il coinvolgimento dei lavoratori non solo nei meccanismi di controllo-gestione della produzione, ma anche dell'intero sistema, sia facendone sposare le sorti, sia tramite la partecipazione politica che si poteva esplicare nei canali predisposti dalle istituzioni decentrate. Così la partecipazione e l'autogestione hanno rappresentato, in quest'ottica, le forme del consenso controllato, e oggi sono diventate le cariatidi dell'ideologia dell'integrazione. Ma per meglio capire ciò è necessario considerare un nuovo aspetto del lavoro. Nella precedente citazione di Rolle (nonostante la lucidità di analisi) c'è l'errore di considerare ancora il lavoro come strettamente connesso con la produzione. Difatti il sistema capitalista, pur non abolendo il rapporto salariale, ha già scollegato la retribuzione dalla fabbricazione di un prodotto, o dall'occupazione di un posto in fabbrica. Questo è avvenuto proprio perché non è più la produzione, o il lavoro, il luogo della produzione del valore, è il consumo che regge la produzione stessa; la produzione diviene sempre più una funzione dipendente dal consumo, determinandone anche il valore; il lavoro si trasforma sempre più da attività produttiva a mezzo per il reperimento del denaro necessario per il consumo, e in questo senso è commutabile con tutti gli altri settori della vita quotidiana. Il lavoro è oggi diventato riproduttivo dell'assegnazione del lavoro, di se stesso, solo perché il rapporto salariale rappresenta la subordinazione del salariato al sistema. Tale subordinazione non è più solo legata al tempo, al ritmo, alla morte che si scambiano per la retribuzione, è anche legata alla attività di consumo; il lavoro è diventato la partecipazione al dispositivo sociale di controllo della vita quotidiana. La suddetta ristrutturazione industriale, difatti, è corrispondente ad una politica statale di assistenzialismo sociale, che va dall'uso massiccio della cassa integrazione per gli operai espulsi dalle industrie, alle indennità di disoccupazione, alle assunzioni sproporzionate di braccianti forestali nelle regioni tipo la Calabria (le cui lotte sindacali travalicavano le prassi contrattualistiche ortodosse: i finanziamenti statali per queste assunzioni venivano fatte con leggi sull'ordine pubblico), alle altre forme di assistenzialismo sociale e di integrazione produttiva. Questa politica assistenziale non è in fondo tanto diversa, nella sostanza, da quella attuata in altri paesi dell'Europa dove con alte elargizioni di indennità di disoccupazione danno la parvenza di garantire in reddito minimo a tutti. Si tratta comunque di ripristinare quella subordinazione del salariato fuori dall'ambito puramente pro-duttivo, nell'intera vita quotidiana, proprio tramite il consumo; cosa che ha aperto la strada ad un'altra ristrutturazione socio-economica. Nella società capitalistica ci viene presentato un soggetto reale, mosso dai bisogni e posto di fronte a oggetti reali fonti di soddisfazione; ma tale soddisfazione è una credenza indotta, basata su una tautologia: l'oggetto serve a soddisfare il bisogno, il bisogno esiste perché c'è l'oggetto. La società dei consumi non è altro che lo sviluppo a spirale di tale tautologia. «E tuttavia è proprio questa la vulgata umanista moderna: attraverso la funzionalità, la finalità domestica del mondo esterno, si reputa che l'uomo possa realizzarsi in quanto uomo. La verità è ben diversa: circondato da merci e da valori di scambio, l'uomo è anch'egli soltanto valore di scambio e merce. Circondato da oggetti che funzionano e che servono è soltanto il più riuscito degli oggetti funzionali e servili».(3)
La società del consumo, se da una parte ha rivoluzionato il valore, eliminando al valore di scambio il suo referenziale valore d'uso — costituendo così un codice, «un gioco strutturale del valore», in cui tutto è interscambiabile con tutto; lo stesso consumo si riavvita in sé nell'iper-mercato: i sogni dei consumatori sono passati dal poter riempire carrelli sempre più grandi, al poter vivere nello stesso ipermercato, senza più uscire, allevando i figli nel reparto banane e mandandoli a scuola nel reparto latticini,(4) e di fatto sono totalmente all'interno dell'iper-mercato, dall'altra parte ha contribuito alla diffusione di oggetti e strumenti che sembra facciano riappropriare gli individui del valore d'uso delle cose. Si tratta dei prodotti dello sviluppo tecnologico, frutto della seconda rivoluzione industriale, quella della diffusione della microelettronica e della velocizzazione dei processi.(5)
Non si tratta di un vero ripristino del valore d'uso quale referente del valore di scambio, ma di una nuova credenza; quella dell'uso autonomo e personalizzato delle cose. Ancora una volta lo spettacolo della merce accorda un valore esaustivo all'individuo, ma solo al fine di definirgli un nuovo quadro. Gli si fa credere possibile la determinazione (autogestione?) del proprio fare, del proprio tempo, delle proprie prestazioni di tempo. E lo stesso lavoro tende sempre più a diventare un «servizio totale, dal quale il prestatore sia sempre meno assente, sempre più implicato personalmente».(6) Inoltre il lavoro, dopo lo smantellamento delle grandi fabbriche, si capillarizza, e scollegandosi sempre più al momento produttivo (nei settori dell'effettiva produzione c'è una percentuale minima di addetti, i quali comunque si trovano in questa nuova dimensione del lavoro), si è parcellizzato nel sociale (ciò è ancora più evidente con l'attuale ristrutturazione economica e istituzionale che, tramite la privatizzazione di alcuni settori statali dell'economia, riintroduce una nuova etica produttivistica, creando una maggiore mobilità). In questo senso non si può più distinguere il lavoro dal tempo libero: in ambedue le situazioni gli individui sono solo il terminale di un'unica rete, si tratta sempre di «utenti» di un servizio. «Il lavoro è dappertutto, perché non c'è più lavoro. È allora che esso raggiunge la sua forma definitiva, la sua forma perfetta, il suo principio, con il quale esso si ricongiunge con i principi elaborati nel corso della storia in quegli altri spazi sociali che hanno preceduto la manifattura e le hanno servito da modello: il manicomio, il ghetto, l'ospedale generale, la prigione — tutti i luoghi di reclusione e di concentramento che la nostra cultura ha secreto nella sua marcia verso la civilizzazione. ...[essi] hanno ormai investito tutto lo spazio sociale, tutti i momenti della vita reale. Qualcosa rimane ancora — fabbriche, manicomi, prigioni, scuole — e ne rimarrà indubbiamente sempre, come segni di dissuasione, per sviare verso una materialità immaginaria la realtà della dominazione del capitale».(7)
L'autogestione di questo esistente, di questa vita reale, dei suoi spazi sociali ineluttabilmente istituzionalizzati, non può che configurarsi come l'autogestione della forma più perfetta del controllo sociale.

(1) Collegamenti per l'organizzazione diretta di classe, n° 1, Firenze marzo 1977, p. 6.

(2) P. Rolle, Sociologia del lavoro, Bologna 1973, pp. 359 e seg.

(3) Jean Baudrillard, Per una critica dell'economia del segno. Milano, 1974, pp. 142-143

(4) È lo spot pubblicitario di un super mercato (una cooperativa di consumatori!), e come tutti gli spot si avvicina molto alle reali esigenze dei consumatori, anzi per l'esattezza, essi rappresentano le vere esigenze dei consumatori.

(5) Ancora oggi ci sono marxisti (vedi Bifo) che dall'interno del loro ottimismo delle forze produttive vedono tutto ciò come il potenziamento del general intellect, che ci può liberare dal lavoro attraverso una riproduzione allargata che fa passare il sistema capitalista dalla soglia della penuria alla soglia dell'abbondanza. Vedono in ciò la realizzazione del mito marxista della liberazione del lavoro attraverso le macchine. Ma, come giustamente un commentatore di regime ha osservato, questi non si rendono conto di quanta imbecillità c'è nel general intellect. Non solo, ma il processo capitalista ha rovesciato le pie illusioni di Marx, nel senso che il lavoro vivo è stato soppiantato dal lavoro morto, questo ha egemonizzato tutta la sfera della vita, anche il non-lavoro. E non solo, non esiste una vera opposizione fra la fase di penuria e quella di abbondanza, il sistema capitalista ha definitivamente sistematizzato l'alternanza fra i due termini, non essendoci né referenzialità né antagonismo, ma solo, in ambedue le fasi, requisizione totale delle persone.

(6) Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, 1979, p. 30.

(7) Ivi, pp. 31-32.

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