N.ro 3

CONTRO IL MUNICIPALISMO TUTTE LE NOSTRE RAGIONI DI RIVOLTA TOTALE ALL'ESISTENTE
di Pier Leone Porcu

Come ci comportiamo nel quotidiano
«Temporibus callidissime inserviens»(1) Cornelio Nepote, Alcibiade, I.

Siamo in attesa di un raggio obliquo di luce dorata che attraversi caldo e vibrante le nostre vite, ma intanto i nostri giorni si involano in una noiosa prospettiva, come una strada deserta che si assottiglia in una distanza buia che non porta da nessuna parte. La storia? La storia la conosciamo tutti. Perché è una storia vecchia, triste e risaputa. L'affitto scade, le cambiali vanno in protesta, soldi ce ne sono pochi e quando il lavoro manca anche la noia ha il suo peso. Così, senza prospettive, è modus vivendi giornaliero di ognuno versare le proprie lacrime di consenso nei forzieri dell'esistente, perché è giocoforza in questo modo finire per non poter dire altro che sì, va bene, accetto. Noi come tutti, tra un tentennamento e l'altro, ci comportiamo spesso così nel nostro piccolo. E poi, siamo sempre noi che, per non sentirci tagliati fuori dal flusso degli avvenimenti spettacolo che accadono, formuliamo — dietro appiattite banalità di base — delle proposte che non contengono alcunché di nuovo, salvo il becero ultra-realismo propositivo che l'ispira, e ciò costituisce la cifra ricorrente della nostra coazione a ripetere, il fare per il fare una qualsiasi cosa, purchessia di moda e sponsorizzata dai media in quel preciso frangente.

Una falsa via d'uscita dalla situazione.
Panem et circenses, Giovenale, Satire, x, 81.

Per tacitare il malcontento di tanti compagni, dovuto all'attuale stato di inazione che regna sovrano nel movimento, i nostri ambienti più retrivi, filo riformisti istituzionali, non hanno trovato di meglio che inserire un'attualissima discussione sul Municipalismo, come misura intesa a sopperirvi senza rimuovere le reali cause. Che questi ambienti siano luoghi ormai parlati dai media, non vi possono essere dubbi, dal momento che seguono per filo e per segno quanto sulla scena politico sociale i media sponsorizzano nei loro battage pubblicitari. A renderlo evidente è il fatto che, dietro questa loro improvvisa riscoperta del Municipalismo, sono rimasti abbacinati dal successo che movimenti-partiti, come la Lega Nord, La Rete ed altre creature affini, hanno riscosso in questo dopo-tangentopoli. Tutti questi movimenti-partiti sono forze politiche sociali organizzate su basi territoriali e locali, e sono le stesse forze che oggi orientano il consenso sociale verso quell'insieme di processi trasformativi in uso nella sfera economico-sociale e produttiva, in quella politico-istituzionale e finanche in quella ideologica culturale. Per capire quest'ultimo aspetto basta guardare a quanto avviene presso la massa di rincoglioniti videodipendenti che seguono con trepidazione la dura contrapposizione televisiva in atto tra il progressista cartello delle sinistre e il cartello forcaiolo presentato dalle destre. Così, nelle trasmissioni tipo Maurizio Costanzo show, o Milano Italia, o Rosso e Nero, per citare quelle più note, nasce il tifo politico: da un lato vi sono quelli orientati a sinistra, tutto cuore, con una spruzzatina di Linus, dall'altra i duri e tozzi, come li vuole la loro nostalgica tradizione, fatta di balilla di latta, moschetti e grida di w la morte; e tutto questo sta a rappresentare la nuova commedia all'italiana chiamata Italia che cambia. Quello che possiamo dire riguardo al Municipalismo è che esso, oltre a non costituire alcuna reale alternativa alla situazione d'impasse in cui ci troviamo, avrebbe il solo merito di renderci più compatibili col sistema, in quanto tutto il nostro agire sarebbe rivolto a ritagliarci uno spazio di agibilità tutto interno alle logiche di sviluppo dell'apparato di dominio, che va in questo momento mutando pelle alla società italiana, tramite la sequenza spettacolare degli avvenimenti politico-sociali attuali e che vengono trasmessi in diretta dai mass media. Le ragioni del perché sostengo questo — senza offesa per nessuno — le evidenzio qui di seguito.

Una breve analisi contro i cavalli di Troia del sistema.
«Timeo Donaos et dona ferentes»(2) Virgilio, Eneide, II, 49.

Questa analisi è tesa a dissuadere i compagni dal voler introdurre nel movimento i cavalli di Troia del sistema. Perché bisogna — come aveva ben compreso Laocoonte — diffidare dei nemici, anche quando si presentano nelle vesti di amici. Il primo appunto. In quest'ultimo decennio — come tutti abbiamo potuto constatare — la produzione capitalistica delle merci è andata decentrandosi su basi territoriali. Ciò è avvenuto sotto la spinta di un'inarrestabile rivoluzione tecnologica, che ha portato il capitale a liquidare progressivamente il vecchio complesso di produzione industriale. La piena realizzazione di questo grande progetto tecnologico capitalista è coincisa con il fallimento dello Stato assistenziale-clientelere e fortemente centralizzato nelle sue funzioni. Ciò è dovuto al fatto che il capitale nel suo processo di sviluppo tecnologico, basato sull'uso della crisi quale strumento di pressione, trasformativo sociale, non solo ha mirato a decentrare la produzione territorialmente, ma nel farlo ha riistituito il primato dato al momento produttivo e alla riaccumulazione, rispetto a quello della riproduzione e del consumo sociale, nel senso dell'instaurazione di una nuova etica neo-calvinista. Naturalmente tutto quanto è avvenuto nel nostro paese è perfettamente in linea con quanto è accaduto e sta accadendo negli altri paesi europei, investiti anch'essi da questa crisi/trasformazione tecnologica, e orientati — come succede qui da noi — a una drastica riduzione dell'investimento pubblico, con conseguente pesantissima compressione dei bisogni sociali, il tutto in funzione di una rapida e maniacale ricapitalizzazione del capitalismo. A pagare i costi di questa crisi/trasformazione tecnologica del capitalismo sono, naturalmente, le fasce sociali proletarizzate più deboli ed emarginate dai cicli produttivi e di consumo dei beni prodotti in questa società del dominio computerizzato. Inutile dire che si tratta degli anziani, dei nuovi immigrati, dei giovani, degli alcolizzati, dei drogati, dei barboni, in una parola di tutte quelle figure sociali che popolano gli inferni dei ghetti metropolitani, i quali non vedono semplicemente compressi i loro bisogni primari, ma ormai ridotte a lumicino le proprie possibilità di sopravvivenza. Oltre all'aggravarsi, in forme sempre più drammatiche, di tutti i problemi sociali (vedi occupazione, casa, assistenza, sanità, ecc.), si alimenta il lavoro sommerso sottopagato e privo di ogni garanzia; e il precariato sociale, che da questo ne discende, è generatore di un perverso meccanismo che porta da una parte i padroni a arricchirsi rapidamente, e dall'altra alla creazione di un piccolo esercito di caporali che godono di irrisori e miserabili privilegi rispetto alla massa dei lavoratori esclusi, e accentua inammissibili diseguaglianze e discriminazioni di ogni genere, su tutti i fronti del vivere sociale. La cronaca dei giornali, di questi tempi, è assai fornita di informazioni al riguardo. Il secondo appunto. Bisogna tenere in debito conto che da questa grande débâcle dello Stato assistenziale-clientelare si è drasticamente accentuata, dopo tangentopoli, la tendenza al decentramento delle funzioni del potere centrale verso quello gestito dalle istituzioni regionali, i comprensori provinciali e, soprattutto, i Comuni. Vengono così trasferite dal governo centrale gran parte delle funzioni istituzionali attinenti non solo la gestione del territorio, ma anche del sociale, dell'economico e del prelievo fiscale. Questa grande operazione di ristrutturazione e trasformazione complessiva dell'assetto istituzionali, pone in discussione, per la prima volta in Italia, la questione della fine dello Stato centralista e unitario, emerso dal processo di unificazione nazionale dell'epoca Risorgimentale, e rende operativo il concetto di territorio come entità a sé, autonoma e specifica, con le sue proprie peculiarità e prerogative, che sono le risorse naturali, quelle tecnologiche e quelle umane di cui dispone. Alla base di questa territorialità vi ruota l'intero perno di sviluppo dell'attuale società iper-tecnologizzata, dentro cui viviamo, la quale per realizzare i suoi propositi di dominio reale, applicato a tutti i livelli del vivere sociale, si serve di una consolidata prassi basata sul decentramento e sulla partecipazione, che, in modo diverso dal vecchio modello centralista e dalla settorialità degli interventi operati nella passata epoca industriale, mira a creare una complessa interrelazione e integrazione tra i vari settori produttivi, presenti in quel dato territorio, unitamente ad una fascinosa gestione partecipata di tutte le forze sociali che nel medesimo vi operano. Il terzo appunto. Il partecipazionismo, il decentramento territoriale e i processi assembleari della democrazia diretta locale, risultano oggi strumenti di gestione del dominio più consoni dei vecchi organismi delegati, creati dai partiti e dai sindacati vecchio stile socialdemocratico, proprio perché portano le masse proletarie a patire, partecipandovi attivamente, una specie di controllo esercitato su loro stesse. Inoltre, questi sono strumenti che evitano pericolose e frontali contrapposi-zioni tra le parti sociali, avendole impegnate permanentemente, con reciproca collaborazio-ne, ad un processo che a tutti appare comune. L'uso di tali strumenti più che spingere le masse sociali proletarizzate a battere le strade della rivolta aperta e violenta contro questo stato di cose, le invoglia a dar corso a funzioni e servizi nuovi, che accrescono, più che abbatterlo, il micro-controllo sociale istituzionale, diffuso sul territorio in forme fino a ieri del tutto impensabili. Molte funzioni di impegno sociale svolgono un doppio e anche triplo ruolo, secondo la prospettiva da dove le si guarda: possono essere viste come modo di accudire la gente, come modo di recuperarle alla società, come modo di controllare, come un intelligente modo di reprimerle nelle loro aggressività, come modo di riciclarle estraendo profitto. In un certo senso, tali funzioni di impegno sociale sono tutto questo e un po' più di tutto questo, se si esaminano i luoghi in cui si svolgono. Questi luoghi sono: le comunità terapeutiche e psichiatriche, i centri per anzia-ni, per handicappati, le assistenze a domicilio, i centri di igiene mentale, i padiglioni ospedalieri speciali per malati terminali di AIDS o di cancro, le case-famiglie, le case di correzione per minorenni disadattati o deviati, le scuole speciali, gli ospizi vari, gli istituti di pena, ecc.. Qui i vari volontari sono organizzati in modo specialistico e operano in tutti gli ambiti del sociale, e collaborano attivamente assieme alle forze dell'ordine nell'opera di cura e prevenzione del crimine, unitamente a stemperare tutti i conflitti tra poveri e ricchi, o se si preferisce tra inclusi ed esclusi, il tutto all'insegna del verbo cristiano-sacrificale: in fondo, siamo tutti fratelli, e a voi derelitte larve umane pensiamo noi; massima espressione della sofferenza e della miseria elevata ad ideale di vita assistita nei lazzaretti del sociale. E sotto quest'aspetto, si rivela facilmente quanto il partecipazionismo e il volontariato sociale siano necessari all'amministrazione e alla gestione sempre più complessa e intrecciata dei processi socio-tecnolgici territoriali e all'organizzazione di una conoscen-za interdisciplinare e capillare del corpo sociale. Il quarto appunto. Nell'ambito del dominio esercitato dalla comunicazione mass-mediatica, il decentramento e la partecipazione rappresentano un canale ad una sola direzione, un flusso inarrestabile di informazioni senza ritorno, diretto dalla periferia verso il centro. L'elaborazione e la strategia comunicativa viene saldamente e opportunamente pilotata, nella contrattazione col governo centrale, dalle potenti lobbyes economiche e politiche localmente costituitesi, dalle fascinose e strumentalizzate logiche democratiche assembleari dei movimenti-partito d'opinione, dalla forza, vischiosa e intatta, dell'insieme degli apparati del sotto-potere istituzionale. +Naturalmente tutto ciò ai più appare come un quadro illeggibile, ma tuttavia talmente solare riguardo all'ampliato e partecipato consenso, democraticamente espresso, da essere esente da critiche ed opposizioni varie. Questo spettacolare processo di totalizzazione del consenso a tutti i livelli, è dato dall'avvenuto coinvolgimento di tutte le componenti sociali e produttive, presenti in quel dato territorio, che collaborano tutte attivamente alla amministrazione-gestione minimale del proprio quotidiano, in questo modo pianificato e statalizzato ad ogni livello, tramite tali procedure. Il quinto appunto. Forza trainante nella trasformazione/conservazione dell'esistente è attualmente un'anonima e massificata classe media, sostenitrice di un processo di ammini-strazione-gestione del sociale, improntato ad un aggressivo e produttivo liberalismo economico e all'innalzamento della macchina tecnologica statale alla sua massima potenza illibertaria, cosa che somiglia molto allo Stato Leviatano di hobbesiana memoria. È una classe che ha improntato il suo senso di giustizia sul forcaiolo giustizialismo di piazza, e ha fondato i suoi valori su ambigui e ambivalenti bisogni reali e in un certo senso primordiali. Questi valori sono: il privato, con le sue connotazioni di appagamento e di emancipazione soggettiva, la stabilità affettiva fornita dal piccolo gruppo e dalla famiglia tradizionale, il significato di sicurezza e di riparo, connesso con una primordiale e ineluttabile esigenza umana che è quella di possedere un caldo e accogliente rifugio domestico. D'altro canto, questa classe, però, riduce gli stessi valori a compatibilità con le esigenze del sistema delle merci capitalista, traducendoli in alienanti oggetti di consumo, di privilegio, di appartenenza a simboli status di cui gode solo chi è pienamente inserito in questa società, vale a dire chi ha un lavoro fisso, una casa, una famiglia regolare ed è in tutto ligio alle leggi, rispetta i suoi superiori, paga le tasse, ecc.. Tutti coloro che non condividono tali valori e stanno per un motivo o per un altro fuori dalla condizione socio-biblica appena descritta, per questa classe neo-calvinista è imperativo categorico che questi debbano perire o, nella migliore delle ipotesi possibili, accettare — come fanno i cani domestici — di mendicare tutto, rinunciando così a qualsiasi condizione di dignità di esseri pienamente umani.

Contro un movimento di adulatori-cortigiani del potere
Servum pecus,(3) Orazio, Epist.,I, 19.

Nel contesto attuale un qualunque movimento municipalista dovrebbe non solo entrare in tutte le logiche enumerate nei cinque appunti su descritti, ma dovrebbe farle proprie, nella misura in cui divenisse anch'esso un movi-mento che sostiene l'esigenze socio-produttive manifestate dalla classe media, in concor-danza/contrapposizione con gli attuali movimenti-partiti di opinione espressi dalla società civile in questo periodo post-regime clientelare. Ciò anche perché questi movimenti-partiti, al contrario di quelli tradizionali, sono organizzati su basi territoriali e locali (vedi Lega Nord, La Rete e i movimenti di carattere civico cittadino a questi affini). Questo movimento, pur presentandosi pubblicamente nelle migliori vesti di movimento di massa libertario, e basato sul pluralismo delle tendenze presenti al suo interno, sulla multiformità degli interventi, sulla pratica autogestionaria e sull'assemblearismo dei processi decisionali, sarebbe un movimento di mistificazione sociale dell'anarchismo, in quanto oltre a non possedere alcun suo proprio carattere teorico-pratico rivoluzionario, si direbbe libertario così come fanno quelli dell'arcipelago verde o i movimenti vari pacifisti, ma avrebbe, come questi, unicamente i caratteri di un movimento di massa legalitario e filo riformista istituzionale. È altresì chiaro che, trattandosi di un movimento fondato su di una ideologia partecipazionista, autogestionaria o democratica radicale, e improntato al decentramento territoriale, nell'attuale quadro socio economico, politico, istituzionale, culturale e urbanistico, non potrebbe fare altro che svolgere un ruolo dinamico nell'articolato processo mosaico dei bisogni sociali, per accudirli tramite una prassi socio politica tesa da un lato a evitare un corporativo irrigidimento dei cedi sociali presenti al suo interno, e dall'altro lato a evitare in ogni modo il radicalizzarsi dei conflitti sociali presenti sul territorio dove opererebbe. Proprio perché più che cercare di contrapporsi alle istituzioni locali e alle strutture capitaliste presenti in quel territorio, per ottenere qualcosa dalle sue mobilitazioni operate in quel conte-sto, sarebbe dedito — sia con le prime che con le seconde — al dialogo/contrattazione per un ragionevole accordo tra le parti. E in questo senso, fungerebbero da movimento di recupero-controllo delle conflittualità sociali sul territorio, oltre a contribuire, col suo stesso sviluppo territoriale, al processo di micro-controllo capillarmente diffuso e praticato dalle istituzioni locali. Ciò tornerebbe utile anche alle strutture capitaliste presenti sul territorio, perché avrebbero un loro valido interlocutore permanente, mobilitato dall'interno nelle masse sociali proletarizzate di quel territorio medesimo.Ogni movimento municipalista verrebbe per ovvie ragioni abilmente sponsorizzato e strumentalizzato dai media locali, nella misura in cui nel suo espandersi territorialmente incontrerebbe gigantesche plusvalenze speculative, legate al consenso sociale dato e riguardante l'ordine di interessi socioeconomici produttivi inerenti quella zona. Si rivelerebbe estremamente vantaggioso per i media, sotto il profilo di operazioni puramente commerciali pubblicitari, il poter disporre di un simile movimento che funge da contenitore, o meglio da bacino d'utenza, che dentro di sé raccoglie l'insieme degli ecologisti consumatori coatti alternativi di quella zona. Un qualsiasi movimento municipalista, ovunque sorgesse, renderebbe ai politici e ai padroni più scaltri, e diciamolo pure, progressisti e verdi, innumerevoli servizi. Ai primi, il servizio lo renderebbe partecipando alle elezioni amministrative locali, costituendo un grande serbatoio di voti che alimenterebbe una politica eco-urbana clientelare, sancita dall'adesione dei militanti di tale movimento ai vari progetti in corso su quel territorio. Ai secondi, garan-tirebbe un inserimento dello stesso movimento, tramite la sua stessa pratica di riforma dell'esistente, nello statuto della produzione e del consumo delle merci alternative-ecologiche del capitalismo avanzato. Il municipalismo — come teoria e pratica di riforma dell'esistente, partecipando ai processi di consenso-spettacolo sociale in uso in questa società-Stato democratico-totalitaria, contiene tutti i cavalli di Troia del sistema, e costituisce una sottile e fascinosa arma di depotenziamento di ogni istanza di rivolta aperta e violenta contro questo stato di cose presenti, anche se a farla propria sono tutti coloro che vorrebbero recitare il ruolo di oppositori.

Una coda contro i colori ingannevoli del municipalismo
Non semper ea sunt, quae videntur; decipit Frons prima multos: rara mens intelligit Quod interiore condidit cura angulo,(4)

Attualmente, nessuno pensa possibile di poter risolvere la drammaticità dei problemi sociali, che affliggono la situazione italiana, con operazioni di ripiano sociale indolori, o nei termini di pura ingegneria istituzionale, o tramite l'alchimia delle formule socio-politiche agitate sulla piazza dai vari partiti, e ciò appare evidente a tutti. Ma la nascita di movimenti municipalisti risponderebbe perfettamente a tali esigenze, con in più che si realizzerebbero col concorso delle stesse vittime. Per questa e per altre ragioni che esporremo avanti, bisogna considerare tali movimenti non come nostri interlocutori senza incognite, ma come nostri potenziali e reali nemici, proprio in misura che questi movimenti si situeranno all'interno dello scontro sociale al solo scopo di sabotare ogni radicalizzazione dello stesso. È bene che, i nostri post moderni Peter Pan dell'ecologica metropoli del futuro, dimettano seduta stante le vesti di municipalisti e passino a pensare a cose più serie, che rispolverino le armi della critica radicale all'esistente, e la finiscano di fare, peraltro fuori tempo, i redivivi intellettuali organici, formato gramsciano. Un simile attacco parrebbe ai più ingiustificato, se non ne spiegassi la ragione di fondo. La ragione è che nello sviluppo di un simile movimento è implicito il concetto di divisione del sapere sociale e la sua gerarchizzazione pratica: da un lato si configurerebbe un piccolo nucleo di dirigenti, di scienziati socio-urbanisti, o meglio di apprendisti stregoni della poliziesca arte di come la gente deve vivere ed abitare la metropoli, dall'altro lato vi sarebbe la massa di militonti riciclati e convertiti alla nuova religione e credo di un'urbanistica dal volto umano, qualcosa di simile al socialismo da caserma che era in uso nei paesi dell'Est, lì l'urbanistica era popolare, si chiamava Gulag. Tutto questo diventa evidente in misura che si pensa al fatto che, sarebbero proprio i promotori e tutto il personale intellettuale attualmente disoccupato ad elaborare gli ortopedici piani di riforma-urbanistici, il resto, o meglio la massa, sarebbe chiamata a pronunciarsi con un si o con un no, su questo o quel progetto propostogli, come più o meno accade nelle scenette degli spot pubblicitari del detersivo. Inoltre, per poter realizzare simili progetti, in veste di promotori, o di contrattatori con le autorità locali, svolgerebbero anche il ruolo poliziesco di controllori, sempre tesi a dissuadere la massa di teste calde che nutrirebbero propositi violenti, come del resto già accade in altri movimenti analoghi a questo, in altri settori (vedi movimento antimilitarista, ecologista, animalista, ecc..). Riguardo, poi, alla favola sbandierata ai quattro venti che un movimento municipalista spinga verso una reale integrazione tra città e campagna o tra consumi e risorse, per dirla in termini più aggiornati, a smentirla ci sta l'esperienza concreta e non immaginaria di tutti i movimenti metropolitani susseguitesi dagli anni '70 in poi. Questi movimenti — peraltro radicali — proprio sul fronte del discorso urbanistico legato allo spazio abitativo e a quello degli spazi sociali liberati di uso comune (vedi occupazioni e relative comuni) sono, sotto questo aspetto, miseramente falliti, o hanno totalmente abbandonato gli originari intendi e ciò che li fa sopravvivere, eccezione fatta per pochi centri sociali e qualche occupazione, è nient'altro che un movimento sindacale teso a regolarizzare la propria posizione nei confronti delle autorità pubbliche. Il loro fallimento è dovuto ai seguenti fattori: l'aspetto riproduttivo, legato al consumo sociale alternativo di beni interni al circuito capitalista della merce, la permanente stretta economica del capitalismo, che non gli ha permesso mai di andare oltre la soglia della sopravvivenza (pratica basata sempre ed esclusivamente sui bisogni primari e non su beni voluttuari) e, infine, la loro chiusura continua e l'impraticabilità di spazi fuori da tale spazio occupato.

Quello che dobbiamo ancora imparare perché la rivolta sia possibile.
«Tu ne cede malis, sed contra audentior ito»(5) Virgilio, Eneide, X, 30.

Nessuno di noi possiede la formula magica per indicarci con sicurezza qual'è la via da battersi, ogni nostra lotta è un tentativo operato in quella direzione. Quello che possiamo fare è solo continuare in questo modo, salvo che uno non si voglia arrendere all'esistente. In queste lotte/tentativi che operiamo la cosa più importante, al di là di un fallimento o di un successo, è che quanto facciamo in quel momento non sia una coazione a ripetere, ma il nostro agire contenga sempre elementi nuovi, basati sulla qualità delle cose che si praticano, più che sul mito del quantitativo. In quanto sono queste le cose che agitano nell'immediato lo spettro radicale della possibilità del cambiamento radicale dell'esistente. Quello che contestiamo ai compagni che vogliono battere la strada del municipalismo è che il loro è un tentativo non operato in questa direzione, ma è l'espressione di una loro coazione a ripetere, è quanto già hanno fatto, con lo stesso criterio, in altri campi dell'intervento sociale. Il loro portarsi in testa una immaginaria macchina da presa che gli fa credere di poter, dentro questo esistente, ridisegnare gli scenari socio-urbanistici della metropoli, cosa che oltre a non modificare assolutamente nulla riguardo la loro reale situazione, al contrario, li allontana da ogni loro più desiderante reale cambiamento, proprio perché scambiano la finzione con il reale. Sarebbero degli attori che recitano senza rendersene conto, in quanto l'occhio magico della cinepresa costituisce un rassicurante schermo occultante il pattume, la violenza, la miseria e il degrado che dilaga in ogni dove di una metropoli. È poi evidente, in ogni modo, che quanto prospettano è frutto di un coacervo di paure e insicurezze personali, allontanate tramite lo specchiarsi in un simile ingannevole sogno, che, a conti fatti, costituisce un orrendo scherno giocato a se stessi, prima che a quelli che in questo modo vorrebbero coinvolgere. Non solo perché non scorgono più che non stanno più opponendosi all'esistente, ma, quel che è peggio, non si avvedono che ne hanno in tal modo interiorizzato il suo prolungamento, che è quello di poter dar corso ad un ortopedico progetto eco-urbanista, che sia in grado di poter correggere a livello di immagine i terrifici scempi socio-urbanistici, commessi nell'epoca industriale. Se c'è una necessità reale immediata, questa è la necessità della distruzione di tutta la macchina sociale dell'esistente, in modo da creare condizioni materiali di non ritorno al passato, in qualsiasi modo inteso. Questo è oggi il compito di ogni rivoluzionario e a maggior ragione se anarchico: l'adoperarsi in questa precisa direzione. E poi, in quest'ottica, qualsiasi cosa si faccia è sempre un danno che il sistema subisce, non certo un aiuto. La distruzione è creazione. Ed è solo ciò che si distrugge che muore, il resto permane. Di fronte a questo miserabile esistente, per fortuna abbiamo ancora i nostri momenti di sconforto. E questi momenti sono i soli in cui scopriamo noi stessi ancora terribilmente vivi, nonostante tutto e tutti. Anche se poi dobbiamo ammettere con noi stessi che non siamo mai andati ancora più in là di una rabbia cupa, dove tutto è puntualmente finito in una bolla di sapone. Così, giornalmente, meditiamo piani che non approdano mai a nulla. E poi ci sono quelle strane notti insonni in cui giaciamo in preda ad una indifferenza opaca, pallidi come la luna, senza pensieri. E infine, diventano sempre più frequenti i giorni e le notti in cui per sfuggire alla disperazione di un'esistenza ridotta al nulla, dai nostri giorni tutti uguali, desideriamo allora solo dormire e ancora dormire...., per poter ancora sognare un passato che è già futuro, dopo il presente in cui si vive. È vero, vogliamo che questo vecchio mondo vada in malora assieme al suo intero carico di orrori, ma per farlo dobbiamo ancora ... ancora imparare che il nostro sogno consiste nel risveglio, perché il risveglio è il sogno che ci spinge infuocato sulla strada della rivolta totale, che tanto auspichiamo: bruciare l'esistente.
Cagliari, 23 febbraio 1994

(1) Servendo con somma astuzia ai tempi.

(2) Temo i greci anche quando recano doni.

(3) Gregge servile.

(4) Le cose non sono sempre tali quali si mostrano; il loro primo aspetto inganna molti; poche menti scoprono ciò che l'industria nasconde nell'intimo di esse.

(5) Non lasciarti opprimere dalle calamità, ma va loro incontro coraggiosamente.

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